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Carlo D’Amicis anteprima. La regola del bonsai

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Venire a conoscenza che il padre di sua madre “era stato una vergogna nazionale, nonché, di gran lunga, il peggiore criminale della storia.” per Werner, il protagonista del nuovo romanzo di Carlo D’Amicis La regola del bonsai, edito da Mondadori, è l’inizio di una fuga, la sua, “ansiosa di abbeverarsi al sangue della storia”. Scrittore prolifico, oltre che autore televisivo e radiofonico, nonché conduttore. Suoi i romanzi Escluso il cane (Minimum Fax 2006) premio Kriterion e Premio Magna Capitana, La guerra dei cafoni (Minimum Fax 2008) da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, La battuta perfetta (Minimum Fax 2010), Quando eravamo prede (Minimum Fax 2014), Il gioco (Mondadori 2018). Con un ritmo incalzante e dialoghi incisivi D’Amicis conduce sapientemente un “programma” tragicomico, il cui speaker per eccellenza è quella memoria che è vergogna, che rende orfani del vivere e, nello stesso istante, richiede un “attimo decisivo”, simmetrico tra passato e futuro.

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Eppure, raramente io credo a qualcosa. Non credo in Dio e non credo a Darwin, dubito di me stesso e non mi fido degli altri, rifiuto la realtà ma non mi spingo ad alterarla più del 30 per cento. È infatti questa, all’incirca, la percentuale di THC della cannabis che coltivo nel mio orto domestico. Chiunque la definirebbe purissima, ma io non credo nemmeno nella purezza, tant’è vero che spesso la mescolo con il Kratom e con l’erba di San Giovanni. Droga leggera o droga pesante? Non lo so e non m’interessa, a queste distinzioni credo ancora meno che alla legge deputata a farle rispettare. Fatto sta che, uscito dall’ospedale, mi guardo intorno e provo un irrefrenabile bisogno di fumare. Riesco a reprimerlo con la stessa fatica con cui, attraversando il ponte, reprimo la tentazione di affacciarmi sulla Sprea. Sotto i miei piedi le acque scorrono torbide. Infrangendosi contro i pilastri, sembrano ripetere minacciosamente il mio nome. E se resistere a queste tentazioni fosse una fatica inutile? È il privilegio di chi sta per morire, mi dico – potersi buttare in un fiume o fumare un’intera piantagione di canapa senza avere più niente da perdere.

(… Ecco, sì, bravo, allora intanto fumiamo…)

Facendo un giro largo arrivo alla stazione, vado a cercare l’ultima panchina sull’ultimo binario e tiro fuori il sacchetto e le cartine. Nonostante Berlino sia una città bendisposta a voltarsi dall’altra parte, arrotolarsi una canna dentro la stazione di Friedrichstrasse resta un gesto avventato. Io però ho il mio sistema per sentirmi al sicuro anche qui, dove aleggiano inquieti i vecchi fantasmi della Stasi: mi tolgo gli occhiali e mi convinco che, se distinguo poco gli altri, gli altri distingueranno poco me. Convinzione fallace, perché, dalla nebbia della mia miopia, emerge subito un seccatore. Da come si muove sembra un vecchio, da quanto è piccolo sembra un bambino. In realtà non è né l’uno né l’altro, la sua andatura apparentemente senile si rivela una patologia dell’anca e il suo metro e mezzo è soltanto un accenno di nanismo. Avrà al massimo una cinquantina d’anni.

«Fuoco?» mi domanda mettendomi sotto il naso l’accendino. A giudicare dai mocassini sformati e dai bioccoli che fuoriescono dal trench, il seccatore non deve passarsela troppo bene. Ma di sicuro non si è ridotto in miseria per pagare il conto del dentista: incisivi, canini e molari sembrano una manciata di dadi lanciati all’interno di una bocca dissestata.

Eppure il sorriso che vi s’incardina è aperto su di me come il cancello di un giardino pubblico.

Non volendo, il mio sguardo viene risucchiato al suo interno. La sigaretta che mi pende dalle labbra, la fiammella piegata dal vento, il suo braccio teso – uno accanto all’altro componiamo una serie di segmenti che bene si adattano alla linearità dei binari e al design di tutta la stazione. Mi piego sull’accendino e mormoro il “grazie” meno scontroso che ho.

«Non c’è di che» risponde l’altro. La pronuncia è sporca come il colletto della sua camicia.

Mentre aspiro la prima boccata, il suo alito rovina la fragranza della mia marijuana.

«Che buffo, eh? Mio nonno scappava da suo nonno, e adesso lei scappa da me.»

Alzo un sopracciglio. Scatto in piedi. Mi strappo la sigaretta dalle labbra.

«Danny Grunberg!» Lui prova a chiudermi il cancello alle spalle. «Finalmente ci conosciamo di persona, mister Wolf!» Mi sbarra il passo sulla destra, io sguscio verso sinistra.

Danny ridacchia divertito dal nostro pas de deux e mi si mette alle calcagna. «Possiamo parlare?» «No.» «E perché no?» «Perché ci siamo già detti tutto per telefono. La smetta di

perseguitarmi!» Lo sento battere le mani. Una, due, tre volte, alla fine è praticamente un applauso. «Geniale! Geniale! Esattamente la frase che la mia famiglia avrebbe detto alla sua!»

«Insomma, basta, mi lasci in pace!» «Come? Come? Ho sentito bene?»

Senza fermarmi, mi volto e lo vedo con la mano all’orecchio: quanto deve piacergli fare tutte queste sceneggiate! «Pace? Ha detto “pace”, mister Wolf? Davvero lei sta invocando la pace?»

Ovviamente nemmeno lui si ferma. La banchina si è riempita di pendolari ansiosi di tornare a casa e il suo passo corto lo facilita nello scartare le stesse persone che io, con le mie leve lunghe e scoordinate, non posso fare a meno di urtare.

«Perché non parliamo della guerra, piuttosto?» mi urla dietro.

Si girano quasi tutti. I pochi che non lo fanno sono intenti a fissare il tabellone che segnala l’arrivo del treno per Potsdam. Come un corpo d’assalto, stringendo le cinghie del proprio zainetto, la folla si raduna dietro la linea. Io provo a tracciarne una tra me e il mio persecutore utilizzando il veleno che mi schizza dalla gola. «Ma di che diavolo parla?» lo affronto.

«Quale guerra?» Ogni mia frase sembra divertirlo. Alza gli occhi al cielo e starnazza.

«Oh, oh, oh, quale guerra, mi chiede! Niente di grave, si tranquillizzi, è stata solo una piccola guerra mondiale!» «La guerra mondiale è finita da un pezzo.» «Lei dice?»

«E comunque…» – cerco ispirazione negli sguardi assenti della gente – «le faccio presente che io, a quei tempi, nemmeno esistevo!»

«Ma la sua famiglia sì, mister Wolf.» «Non ho nessuna famiglia.»

Questa volta sembra ridere per educazione. Incrocia le braccia e annuisce a tempo con il segnale acustico che annuncia l’imminente chiusura delle porte.

Come potrei, io, chiudere la bocca a Danny Grunberg? Il brivido che provo nel pensarlo morto rinfocola il sospetto di essere un uomo violento. Un terrore familiare mi pervade e produce i suoi umilianti effetti. Mi sciolgo, letteralmente: ora potrei sudare, piangere, pisciarmi addosso, fino a diventare un unico rivolo che cola in un tombino…

«Io non sono quello che lei pensa» dico con un filo di voce. «E allora chi è, mister Wolf?»

Il segnale intermittente si trasforma in nella voce registrata che intima «Zurückbleiben bitte».

Un istante prima che il treno si muova, mi volto e mi lancio sulla piattaforma. Nel richiudersi, la porta mi colpisce sul fianco destro. Mi torco dal dolore e le code di cento occhi mi colpiscono su quello sinistro. Ma in un modo o nell’altro sono dentro, il treno prende velocità, vetro e cemento vengono risucchiati all’indietro, in un gorgo nel quale finisce anche il mio aguzzino. Piantato sulla banchina, con le mani

in tasca, guarda nella mia direzione.

… Maledetto, si direbbe che sorrida…

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