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Antonio Moresco anteprima. Viaggiatori del cielo. Omaggio a Maria Corti

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Viaggiatori del cielo. Omaggio a Maria Corti in uscita da Mattioli 1885, è il prezioso tributo, con la cura di Benedetta Centovalli, che unisce le voci e le testimonianze di scrittori, poeti, editori, e studiosi tra i quali compaiono Mario Andreose, Francesco Permunian, Fabio Pusterla, Paola Capriolo e Antonio Moresco.

Il progetto che ha portato alla realizzazione di questo volume è nato a vent’anni dalla scomparsa della grande quanto poliedrica filologa, dantista, critica letteraria, scrittrice e consulente editoriale, a cui si deve la creazione del Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. E contiene anche un racconto e un testo inedito dedicato al dialetto trevisano firmati da Maria Corti, oltre a due lettere a lei inviate da Antonio Moresco. Del libro riportiamo un estratto della prefazione di Benedetta Centovalli, e uno della testimonianza-ricordo firmata da Antonio Moresco.

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La vita, tutta dedicata alle lettere, è racchiusa tra le pagine dei suoi libri in cui restituisce ritratti e rapporti di amicizia con scrittori prestigiosi come Manganelli, Montale, Romano Bilenchi, che le donarono personalmente i propri manoscritti da inserire nel Fondo, e poi Alberto Arbasino, Umberto Saba. Corti recuperò, salvandolo dal macero, tutto l’archivio manoscritti di Bompiani, così come acquistò i manoscritti di Amalia Rosselli, l’intero carteggio tra Italo Calvino ed Elsa De Giorgi, che rappresenta forse “l’epistolario d’amore più suggestivo del Novecento italiano”. E ancora, il poderoso archivio Carlo Levi, gli scritti primigeni di Foscolo, le carte di Gatto, Giorgio Guerra, Mario Luzi, Franco Fortini, Bufalino, Luigi Malerba, Goffredo Parise, Flaiano, Rigoni Stern, Volponi, Porta. Possiamo dire che tutto il patrimonio letterario italiano più significativo è passato per le mani rigorose e vigili di Maria Corti che lo hanno raccolto e reso disponibile per sempre alla volontà e passione di chi ancora oggi vuole lavorarci. Fu anche colei che individuò nuove voci, talenti, intersecando il futuro con il passato, arricchendolo di figure chiave. È il caso di Alda Merini. Lei, che la conobbe in primis come la passione irrefrenabile di Giorgio Manganelli, il primo a occuparsi delle sue psicosi, ne comprese il grande valore artistico. Ricorda Paolo Mauri nel libro, fu durante un incontro a casa di Malerba che gli parlò di questa poetessa, validissima, eppure trascurata, chiedendogli dove potesse valorizzare le poesie già scritte in manicomio. Mauri, co-direttore assieme a Malerba della rivista “Il cavallo di Troia”, le ospitò nel numero 4 con una nota della stessa Corti intitolata Follia&Poesia. È a lei, dunque, che dobbiamo l’avvio della nuova stagione per la poetessa che la portò, poi, alla notorietà di massa. Ironia e audacia Maria Corti è ricordata come una donna ironica, anche nei suoi scritti, spesso pungenti, nel racconto di alcune sue iniziative “discole” come quella di cui fece vittima Umberto Eco all’epoca della pubblicazione del Pendolo di Foucault. Si sorridedurante la lettura.

Benedetta Centovalli

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Clandestinità

Ho conosciuto e avuto fervidi e sconcertanti rapporti con Maria Corti in un periodo particolare della mia vita, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Allora avevo poco più di trent’anni ed ero uno scrittore invisibile, reduce da esperienze che avevano spezzato in due la mia vita. Mi aveva dato il suo nome e il suo numero di telefono un piccolo editore ‘di movimento’ (come si diceva allora), che avrebbe dovuto pubblicare un mio libro ma che poi non l’aveva fatto perché era stato arrestato. A suo parere Maria Corti era uno dei pochi letterati che prestavano ascolto a voci sotterranee e fuori dal coro. Così, nella mia totale solitudine di scrittore e nella mia fantasia, mi ero costruito un’immagine angelica di questa persona, tanto da farne una mia stella polare e da parlarne ripetutamente in un diario che mi accompagnava in quei tempi bui e che poi è stato pubblicato molti anni dopo (Lettere a nessuno).

Allora vivevo in un monolocale, non avevo il telefono, per cui riuscire a fare una telefonata era un’impresa. Dovevo camminare a lungo in quelle zone periferiche in cerca di una cabina telefonica, di un tabaccaio che tenesse i gettoni e che li vendesse, perché ogni tanto, alla vigilia di qualche preannunciato aumento del prezzo, i tabaccai dicevano di averli finiti per poi rivenderli poco dopo a prezzo maggiorato. E c’erano poi le cabine quasi regolarmente fuori uso e sfasciate, con i vetri sfondati, il filo tranciato di netto da un coltello, la gettoniera ostruita da chewing gum schiacciati dentro con forza oppure fusa dalla fiamma dell’accendino di qualche altro disadattato che viveva in quelle zone lontane dal centro e che evidentemente non trovava altro modo per sfogare la propria antisocialità. Tutto questo per dire che per me, oltre che per tutto il resto, telefonare a qualcuno era una cosa difficile e addirittura angosciosa. Però alla fine, vincendo la mia terribile timidezza, avevo telefonato per la prima volta a questa signora.

All’inizio senza successo, ma poi ero riuscito finalmente a trovarla. Dopo la prima, c’era stata qualche altra telefonata. Erano brevi scambi, alla fine dei quali io uscivo dalla cabina con la gola chiusa per l’emozione e la testa in fiamme. In quei mesi scrivevo di notte, seduto sulla tazza del water, con il quaderno sulle ginocchia, un libro intitolato Clandestinità, che è poi uscito quindici anni dopo. C’erano stati, nel corso di due o tre anni, diversi altri scambi telefonici con Maria Corti. Io le parlavo della passione che mi animava, di quello che avrei voluto portare nel mondo attraverso la letteratura, e a lei probabilmente sarò sembrato un folle, un esaltato. Mi rispondeva che ce n’erano tanti altri come me, come se non ci fosse differenza tra le persone e anche tra gli scrittori, come se non si rendesse conto del dolore che queste parole potevano provocare in uno scrittore come me, che viveva in modo così radicale la propria diversità e midollarità, che era con le spalle al muro e portava avanti la sua dedizione di scrittore come una questione di vita o di morte. Mi parlava anche dei suoi libri. Mi diceva che lei si sentiva più una scrittrice che una saggista, che erano le sue opere narrative quelle che sarebbero rimaste nel futuro, perché si vede che era anche lei dentro un suo delirio.

Una volta mi aveva manifestato la sua intenzione di rivedere e ripubblicare il suo primo romanzo intitolato Il treno della pazienza, che le era venuto in mente un altro titolo, Cantare nel buio, ma che si stava orientando a mantenere quello originario. Io le avevo detto che a mio parere Cantare nel buio era un titolo molto bello e che io lo avrei intitolato così. Lei mi aveva risposto che però quello era un titolo adatto a un frammento, mentre il titolo giusto e importante era il primo (un po’ di anni dopo ho visto in libreria che questo libro era poi uscito con il titolo di Cantare nel buio). Una volta mi aveva persino scritto una lettera, che avevo tenuto per molto tempo come un talismano, nella totale solitudine artistica in cui vivevo. In quella lettera lei aveva scritto: «Tenga duro, non si arrenda, chi vale veramente prima o dopo sfonda, sempre». Durante tutto questo tempo leggevo con grande passione i libri che lei via via pubblicava, come quello su Donna me prega di Guido Cavalcanti oppure Dante a un nuovo crocevia o quello sugli scritti giovanili di Leopardi, con il loro passo calmo e il loro amoroso uso di sapienza, che aprivano di fronte alla mia mente e al mio cuore di giovane uomo dalla vita tutta da riconquistare e da reinventare un mondo pieno di possibilità e sconfinamenti. Ma anche quelli sulla letteratura moderna.

Antonio Moresco

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