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Colle der Fomento. Colle

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Milano capitale, Roma succursale: lo sfottò dei tifosi meneghini diventa verità quando usciti dall’ambito sportivo valutiamo il peso delle due città in ambito musicale. A Milano ci sono le case discografiche più grandi, i project management più attrezzati, i fatturati più redditizi e, se escludiamo i mostri sacri in attività (vedi Venditti, De Gregori, Renato Zero e Måneskin) che possono permettersi di fare sold out all’Olimpico o riempire il Circo Massimo, i promoter a Milano vendono più biglietti, le rassegne sono realmente internazionali, anche grazie all’aiuto di Comune e amministrazione che in questi anni hanno saputo sfruttare le opportunità di crescita economica offerte dal settore musicale. Il mercato alimenta l’arte e viceversa in un circolo apparentemente virtuoso.

Eppure Roma sembra sempre bastare a sé stessa, da secoli. E se quest’atteggiamento mentale spesso si traduce nello strapaese più pecoreccio, e anche vero che mette al riparo e protegge quelle singolarità artistiche e quei fermenti creativi che altrove sarebbero diluiti nella gestione industriale. È il caso del Colle der Fomento, gruppo capitolino nato nei primi anni ’90, fenomeno di culto per generazioni di ascoltatori che, in oltre venticinque anni di carriera, li ha visti suonare sui palchi di tutta Italia, fino a essere eccezione “non solo nel panorama del rap nazionale, ma anche all’interno della musica italiana: quale artista può permettersi di pubblicare album con cadenza quasi decennale senza perdere l’affetto del proprio pubblico e conquistando anzi nuovi fan?” Con uno spericolato disprezzo verso ogni logica di gestione commerciale, aggiungerei.

In queste quasi cinquecento pagine uscite per Minimum Fax, non c’è soltanto la crescita di un genere musicale approdato in Italia con tante diffidenze. Non c’è soltanto la cronaca in controluce di tante sottoculture giovanili che sono ormai il nostro mainstream cultural musicale: il Colle è passato dalle compagnie di ragazzi a piazzale Flaminio nella Roma dei primi anni Novanta, alla conquista degli spazi dove esibirsi, fino alla maturità di un genere che ha trasformato strutturalmente i linguaggi radiofonici nel nostro paese. Non ci sono soltanto le vicende del trio romano, raccontate dai protagonisti e intervistati da Fabio Piccolino. La vera bellezza del libro non è tanto l’interessante spiegazione della nascita dei quattro album, canzone per canzone raccontate da Masito dal Danno e Dj Baro.

Questo libro è soprattutto la storia di Simone Eleuteri e Massimiliano Piluzzi, due musicisti che si spogliano del proprio stage name. Di quanto riconoscano la fortuna di essere stati baciati dal talento, ma pure del sudore e della perseveranza con cui hanno coltivato il proprio mestiere. Quanto sia stata faticosa la strada della propria intransigenza artistica e culturale, quanti rifiuti e separazioni ha prodotto.

È proprio quando i protagonisti di questo libro si confrontano col fantasma della sconfitta (non soltanto artistica) che le pagine si infuocano e diventano più vere del vero. Questo ritratto d’umanità dolorosa e furente ha una profondità che inquieta quanto un pozzo. Gli autori del libro ci raccontano che non c’è tragico senza risata, o meglio, la musica è tanto più leggera quanto più si è riso delle etichette ideologiche preconfezionate che l’accompagnano, la tristezza è tanto più reale quando dopo ogni weekend si scende dal palco e c’è una settimana da occupare col lavoro, con gli affetti e le amicizie che vanno perché, per citare proprio il tormentone che dà il titolo al libro, è solo amore se amore sai dare.

Luigi Duns

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