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Cosa mi dice il mare. Intervista a Lorenza Stroppa

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Cosa mi dice il mare è un romanzo di storie, di vissuti molteplici, di probabilità e possibili svolte che la vita ci dona, a volte, a ben vedere, a ben ascoltare. Il tempo e le sue trasformazioni sono il filo rosso che unisce le persone di questo mare esistenziale, dove la narrazione galleggia leggera, o s’inabissa, si avvolge nel paesaggio della Bretagna, risplende, oppure oscura si districa tra rimorsi, grotte e cavità popolate di sensi di colpa, nostalgie, impossibili decisioni. Una madre e un figlio, famiglie, amicizie. Il vasto mare della narrazione che posiziona corpi e respiri, nonni, amicizie, amori. La stagione della vita è un riflesso abbagliante, abbagliato dal pregiudizio di chi non perdona, non si perdona. Il tempo è fluido ma nelle ossessioni dei protagonisti diventa maniacalità, fortezza psicotica e àncora cui ci si aggrappa nell’incapacità di gestirlo. Una continua mancanza di progetti consapevoli che però la narrazione trasforma lentamente nella soluzione che pareggia i conti. I protagonisti, il cui destino ruota intorno a un mare che, pur nella sua materialità è motore di relazionalità e affetti, resta un archetipo, un fonte di purificazione, di amore e di vendetta, di cambiamento. Cosa mi dice il mare è anche, e soprattutto, romanzo di resti, di cocci, di rimanenze reintegrate nella trama della vita proprio come quell’arte giapponese del Kintsugi che ripara gli oggetti rotti usando la lacca d’oro. Il linguaggio è proprio l’amalgama invisibile e ricostruisce destini di personaggi, soggetti desideranti che paiono sussistere di vita autonoma dalla volontà dell’autrice: la sabbia retorica della classica storia famigliare qui è soffiata via da poderose e delicate mareggiate di desiderante scrittura. E le storie emergono e spariscono, come delfini, o balene, nel mare immanente dell’esistere. E si formano così, micromondi che salgono in superficie come bolle d’aria, lungo precise traiettorie narrative. Respiri che sono musica. Storie che sono di altri, e nostre, vicinissime e pure altrove.

Gianluca Garrapa

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« ≪È il faro dell’Île Tristan≫ riprende il padre.

Mamma mi parlava di quell’isola e della storia di Tristano e Isotta≫.

Sì, anche a me. Fino allo sfinimento».

Sorridono entrambi senza guardarsi, gli occhi sul mare, e poi emettono un identico sospiro, coperto dal ruggito delle onde.» Il rapporto tra genitori e figli\e è un motivo ricorrente nel romanzo, un rapporto complesso come quello che unisce autrice e personaggi. Personaggi, questi, che vivono di vita autonoma e la presenza di chi scrive si muove, invisibile, nei fondali del mare dell’esistenza. Come costruisci i tuoi personaggi e come li adatti al contesto?

I miei personaggi nascono da un caleidoscopio di persone reali, ricordi, letture. Sono un’osservatrice instancabile, catturo volti, gesti, dialoghi dal mondo che mi circonda, dagli amici, dai libri e poi li immagazzino. Lo faccio anche inconsapevolmente, quando mi trovo per esempio in treno o in luoghi di attesa. E poi, quando scrivo, attingo da quell’archivio di volti e idee. Lo faccio come il Dr. Frankenstein, componendo i personaggi di vari pezzi e sfumature. Credo infatti che non debbano essere delle pedine della storia, ma degli specchi, rivolti dentro e fuori la scrittura. Dovrebbero riecheggiare la vita, nasconderne la profondità. Essere delle matrioske: con dei segreti e coscienze vivide, inquiete, mutevoli, come quelle reali.

«Douarnenez, 1997

La chiesa di Saint-Herlé a Ploaré era gremita di gente quel giorno. L’odore dolciastro dei gigli mi dava la nausea. Arthur mi aveva chiesto se volevo sedermi sulle panche davanti, con la famiglia.» Nel tuo romanzo ci sono parti scritte in corsivo: ci racconti se per te conta più il flusso montaggio o più il montaggio delle scene, indipendentemente dalla cronologia?

Ci sono libri che nascono come dei proiettili, vanno dritti alla fine con una traiettoria semplice e chiara, e libri che si contorcono, si aggrovigliano su se stessi, conducendo a un finale sfaccettato. Per me è sempre la storia, a dire come deve essere raccontata. In questo caso il montaggio è stato fondamentale, perché il romanzo ospita più vicende, voci narranti separate e diversi piani temporali e serviva tenere tutto in equilibrio, tirare i fili in modo da comporre un arazzo credibile e con il giusto ritmo. L’operazione di montaggio, che per la maggior parte ho ricomposto e rivisto a libro finito, in fase di revisione, è stato essenziale. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non credo che conti più l’uno o l’altro, conta quello che chiede la storia.

«Ma il mare seguita a mordere la roccia, a cercare di azzannarla con fauci d’acqua, e non mi risponde. Avverto la sua smania e il mio smarrimento. Il vento mi fa ondeggiare in bilico sullo sperone.» Che rapporti hai con il tempo del mare da averne fatto la colonna sonora e di senso del tuo romanzo?

Il mare per me è un esercizio di ascolto, un allenamento all’inquietudine. Lo frequento e lo vivo da sempre, respirando a ritmo della marea, litigandoci, lasciando che le onde si portino lontano i pensieri, o me li rigettino indietro, per affrontarli. In questa storia però il mare è anche un collezionista di oggetti: a volte li trattiene negli abissi, a volte li restituisce, ma sempre cambiati, ritoccati dal moto ondoso, dalla risacca; noi facciamo la stessa cosa con i ricordi, modificandoli per adattarli e riuscire a digerirli.

Il corpo: il corpo dei tuoi soggetti è ben delineato, ha un suo tempo, le sue rughe, le sue ossessioni e le sue manie: cinque sensi ha il corpo e forse anche la scrittura:

«≪Dalle nostre parti c’è un’antica leggenda che parla di una grotta che potrebbe essere la nostra≫ dice Anne dopo un po’. E talmente vicina che Roux percepisce il suo odore, miele e sole.» Che odore ha il tuo romanzo?

Sa di ruggine e sale, di cose logorate, corrotte dal tempo e dai rimorsi, lasciate alle intemperie. Ma anche di canfora e sabbia: la canfora per riporre, per custodire ciò che è prezioso e la sabbia che accoglie e cancella, accoglie e cancella, senza fermarsi mai.

«Il rimorso mi era rimasto come un cattivo sapore in bocca che non riuscivo a mandare via. Perciò decisi di fermarmi.» Che sapore?

Un sapore amaro, acido. Quel sapore che si forma nello stomaco quando tradisci l’amicizia e la tua coscienza. Quando ti lasci tentare dalla gelosia e dall’invidia. Corinne, la mia protagonista, ha lasciato che un semino d’odio crescesse nel suo rapporto con la sua migliore amica Blanche. In una amicizia adolescenziale ce ne sono mille, che nascono e muoiono, che non ricevono nutrimento abbastanza per proseguire. Il suo invece, purtroppo, ha attecchito fin troppo bene, e i suoi frutti sono stati letali.

«Gli aveva chiesto lei di andarci. ≪Voglio vedere le cose dall’alto≫ gli aveva detto.» Cosa hai visto, che immagini hanno accompagnato la scrittura del tuo romanzo?

Quando scrivo ho sempre l’impressione di sorvolare un magma, una sostanza cangiante e in continuo movimento in cui ogni tanto affiorano immagini, persone, arti, case. Talvolta i frammenti si uniscono, a formare qualcosa, talvolta appaiono e scompaiono e non riesco a raggiungerli. Mentre scrivevo questo romanzo ho letto un saggio che mi è stato molto utile, La scienza dello storytelling, di Will Storr (Codice Edizioni) e ho trascorso una vacanza in barca a vela, dedicandomi a lunghe immersioni in apnea e assorbendo orizzonti e colori.

«Ma il mare, quel suono incessante che viene a lambirmi nei sogni, nei pensieri, mi sussurra un’altra verità, e da un po’ di tempo faccio fatica a ricordarmi chi sono, chi sono veramente.» E il tuo romanzo, che suono potrebbe produrre?

Un suono ripetitivo e un po’ ossessivo, come quella musica martellante che mettono a tarda notte in alcuni locali. Qualcosa che ti scava dentro, che ti strappa a te stesso. Una musica che provi a combattere, ma alla fine ti ritrovi a cedere al suo logorio, abbandonandoti tuo malgrado.

«Il vecchio porta i capelli lunghi annodati in un codino spelacchiato; è secco ma muscoloso, e la pelle sembra fatta di cuoio.» Fosse un corpo, che sensazioni tattili procurerebbe il tuo romanzo?

Saprebbe sfiorare, indurre sottili brividi epifanici – come il tocco di una persona che conosce bene il nostro corpo e ci sa giocare – oppure ferire, ma sempre con un approccio seducente e manipolatorio. Provocare un taglio lieve che poi si apre in profondità, per mettere a nudo verità e dolore.

«La costa, in quel punto del Quimper, è frastagliata e alterna spiagge poco profonde a faraglioni scomposti e aguzzi.» Il paesaggio e le storie: come, secondo te, si sta veicolando la storia del nostro paesaggio-presente? E come si descrive un paesaggio, dal punto di vista degli elementi che lo compongono? Come mai hai scelto proprio quest’ambientazione?

Il paesaggio-presente fa ancora fatica a entrare nei libri italiani. Nonostante aperture e sguardi più ampi, la maggior parte di noi è ancorata a una scrittura più intimista e ombelicale, una bolla di trame e risvolti psicologici.

Il paesaggio per me dovrebbe entrare nella storia con un amalgama di sensazioni, sottolineando atmosfere, umori, twist narrativi. Non è una quinta immobile, ma una salamoia dentro alla quale personaggi e movimenti galleggiano e acquistano sapore. Per renderlo vivo e funzionale alla scrittura, bisogna allora fare di più che immaginarselo: toccarlo, odorarlo, gustarlo, percepirlo… Riportare le sensazioni come i cocktail molecolari: tramite piccoli coaguli che rappresentano un mondo e ti fanno esplodere i sensi.

Per questo romanzo ho scelto l’oceano Atlantico, e in particolar modo la costa bretone, perché è un luogo intriso di storie e leggende, e perché i suoi abitanti hanno un rapporto viscerale con il mare, che condiziona le loro vite. Io sono laureata in Filologia Romanza e sono andata spesso in Bretagna, terra dove sono nati i lai e le storie sulle quali ho studiato, scrigno del medioevo. Douarnenez, oltre a essere un posto incantevole – un piccolo paese di pescatori – ha di fronte l’isola di Tristano con il suo faro. Dicono che ospiti due alberi particolari che, cresciuti vicino, hanno intrecciato i loro tronchi. Si mormora che al loro interno vi siano gli spiriti di Tristano e Isotta, gli sfortunati amanti, finalmente riuniti.

Essere editor come influenza l’essere scrittrice?

Ho sempre avuto un’attitudine un po’ maniacale verso la scrittura: per me scrivere è un continuo riscrivere, modellare, aggiustare. Faccio fatica a continuare se i capitoli precedenti non sono a posto, se non li sento, a posto. Il mio lavoro di editor mi ha insegnato a mettere un punto, a controllare questa mania.

L’esperienza di editor per Ediciclo Editore mi consente inoltre di approcciarmi a libri che difficilmente leggerei, testi di genere o stile molto lontani da ciò che scrivo ma che, proprio per questo, mi danno spunti diversi, o mi regalano linguaggi e codici nuovi.

Infine, essendo anch’io un editor, sono per natura molto malleabile e collaborativa. Quando il mio lavoro viene a sua volta analizzato da un editor, ascolto ciò che ha da dirmi e, la maggior parte delle volte, accetto di lavorare riscrivendo e ribaltando, senza inutili pregiudizi o tema di perdere il senso di ciò che ho scritto. L’editor lavora per migliorare il libro, per farlo funzionare di più, e lo fa a fianco dello scrittore. Non è un professore in cattedra. Vale la pena ascoltarlo.

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