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Djuna Barnes anteprima. Donne d’America. Madre

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Giulia Caminito e Paola Moretti curano per Bompiani questo Donne d’America (traduzione di Paola Moretti e Amanda Rosso), raccolta di racconti (alcuni inediti) di grandi scrittrici americane – anche molto diverse l’una dall’altra – uniti dal filo rosso della scoperta delle più svariate parti degli Stati Uniti. Si va dalla giungla d’asfalto di NewYork alle sconfinate praterie meridionali. La raccolta, comprende scritti (anche inediti) di Edith Wharton, Willa Cather, Djuna Barnes, Alice Brown, Kate Chopin e anche Gwendolyn Bennett, che fu tenuta sotto controllo dall’Fbi perché sospettata di essere una spia comunista, tra le tante. L’altro aspetto che accomuna i racconti è l’affermazione narrativa di personaggi femminili complessi e sfaccettati, che rimandano a tutto tondo personalità forti, spesso audaci, ma anche tormentate e in possesso di uno sguardo ironico sulla realtà. Uno sguardo che, di volta volta, aggiunge un tassello alla corale rappresentazione dell’America del loro tempo. Qui anticipiamo un estratto dal racconto di Djuna Barnes intitolato Madre.

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Una luce flebile sfarfallava nel negozio dei pegni sulla Ventinovesima. Di solito la padrona, Lydia Passova, sedeva nel retrobottega leggendo con quella luce: una lampada traballante con la comune copertura verde. La testa lunga e pesante era divisa da una scriminatura di capelli lisci raccolti. Il busto lungo e compatto era reso ancora più lungo e ancora più compatto da corsetti tedeschi. Era eccessivamente alta e ciò era dovuto a gambe straordinariamente slanciate. Aveva occhi piccoli e non molto vispi. Il sinistro si era leggermente impigrito per l’uso prolungato di una lente d’ingrandimento. Era di mezza età e molto lenta nei movimenti, anche se con un buon equilibrio. Indossava coralli alle orecchie, una collana di corallo e molti anelli di corallo. Nei suoi gioielli c’era un che della tragedia comune a tutti gli articoli che si trovavano in pegno, e si muoveva tra i vassoi come il guardiano di un cimitero che porti con sé un po’ del lugubre silenzio della terra su cui cammina. Commerciava, perlopiù, in cammei, granati, moltissimi braccialetti intarsiati e gemelli. Tuttavia c’erano anche alcuni orologi, contenitori d’argento, equipaggiamento da pesca e pantofole scolorite; e quando di notte accendeva la lampada, questi oggetti.

Una luce flebile sfarfallava nel negozio dei pegni sulla Ventinovesima. Di solito la padrona, Lydia Passova, sedeva nel retrobottega leggendo con quella luce: una lampada traballante con la comune copertura verde. La testa lunga e pesante era divisa da una scriminatura di capelli lisci raccolti. Il busto lungo e compatto era reso ancora più lungo e ancora più compatto da corsetti tedeschi. Era eccessivamente alta e ciò era dovuto a gambe straordinariamente slanciate. Aveva occhi piccoli e non molto vispi. Il sinistro si era leggermente impigrito per l’uso prolungato di una lente d’ingrandimento. Era di mezza età e molto lenta nei movimenti, anche se con un buon equilibrio. Indossava coralli alle orecchie, una collana di corallo e molti anelli di corallo. Nei suoi gioielli c’era un che della tragedia comune a tutti gli articoli che si trovavano in pegno, e si muoveva tra i vassoi come il guardiano di un cimitero che porti con sé un po’ del lugubre silenzio della terra su cui cammina. Commerciava, perlopiù, in cammei, granati, moltissimi braccialetti intarsiati e gemelli. Tuttavia c’erano anche alcuni orologi, contenitori d’argento, equipaggiamento da pesca e pantofole scolorite; e quando di notte accendeva la lampada, questi oggetti. 

Lydia Passova non fu mai vista con lui. Lasciava il negozio di rado, tuttavia era sempre contenta quando era lui a voler andare da qualche parte: “Vai,” gli diceva baciandogli la mano, “e quando sei stanco torna.” A volte lo faceva piangere. Voltandosi lo guardava un po’ sorpresa, con le palpebre abbassate, una leggera tensione nella bocca.

Djuna Barnes

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