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Marco Frittella anteprima. L’oro d’Italia

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Rai Libri porta in libreria L’oro d’Italia. Dall’abbandono alla rinascita, viaggio nel paese che riscopre i suoi tesori (e la sua anima) il nuovo libro di Marco Frittella, storico volto del giornalismo televisivo che per quarant’anni, prima dai microfoni del Gr2 e poi del Tg1, ha raccontato le principali vicende politico-istituzionali d’Italia e ha realizzato prestigiose interviste, da Gorbaciov a Walesa, da Brandt a Cossiga e Napolitano. Per molti anni docente di giornalismo all’Università di Tor Vergata e alla scuola di Perugia, ha condotto il Tg1 per due decenni e “Unomattina” per due stagioni. Suo Italia Green. Mappa delle eccellenze del made in Italy ambientale edito nel 2020 da Rai Libri, di cui nel marzo 2022 è stato nominato direttore editoriale.

Una storia nelle storie, quelle di archeologi, di manager culturali, di volontari, di specialisti di ogni genere, di politici, e di militari che danno voce al recupero dei beni culturali e artistici d’Italia, per molti anni lasciati deperire da noncuranza e sottovalutazione. Da Pompei alle Regge di Caserta, di Carditello e della Venaria Reale, dal giardino della Kolymbethra ad Agrigento alla Villa Gregoriana di Tivoli prendono avvio la rinascita e la valorizzazione del nostro sterminato patrimonio, grazie anche al lavoro dei volontari, alle scuole di restauro, al nucleo dei Carabinieri, ai musei dotati di autonomia, all’ impegno di una cooperativa di giovani strappati all’emarginazione. Il linguaggio è particolareggiato e “reale” come quel tesoro culturale ed artistico, ereditato in secoli di storia, che ci appartiene, di cui possiamo ammirarne la grandezza e che dovremmo proteggere, poiché è memoria storica che non dobbiamo essere disposti a smarrire.

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Pompei

Le plus merveilleux musée de la Terre

François-Reneé de Chateaubriand

Si potrebbe dire: benedetto fu quel crollo. Perché è da lì, da un crollo, che è cominciata la rinascita di Pompei.

Pioveva da giorni, in quel novembre 2010. L’acqua copiosa gonfiava i muri delle rovine e i terrapieni di pietra lavica non scavata adiacenti alle domus. All’alba di sabato 6 novembre venne giù, sotto il peso di una vecchia struttura protettiva in cemento, la Schola Armaturarum, probabilmente sede di un’associazione militare che fungeva anche da deposito di armature, già danneggiata dai bombardamenti del 1943 e situata dalle parti di via dell’Abbondanza, nella Regio iii.

La Schola era chiusa da tempo, tristemente transennata come tante altre costruzioni pompeiane in attesa di un restauro o di un consolidamento; i turisti che passavano di lì potevano guardarla solo dall’esterno senza potersi avvicinare agli affreschi che conteneva, con trofei d’armi, candelabri stilizzati e figure volanti. Ora, insieme ai suoi muri sbriciolati dall’acqua, veniva giù un altro pezzo di Pompei: era già successo tante volte senza che la notizia si diffondesse e si sarebbe ripetuto di lì a poco anche alla Casa del Moralista, al Tempio di Giove, alla Necropoli di Porta Nocera, al Tempio di Venere, alla Villa dei Misteri: l’elenco di crolli di muri e pilastri, di smottamenti, di sfarinamenti di malte, di perdita di intonaci e affreschi, di allagamenti delle aree archeologiche riempirebbe diverse pagine. I responsabili del sito allargavano le braccia e spiegavano l’accaduto sempre alla stessa maniera: “Piove, che ci volete fare?”. “Ogni anno”, si leggeva nel rapporto 2008 dell’Osservatorio Patrimonio Culturale, “a Pompei si perdono 150 metri di intonaco”.

Ma il crollo della Schola fece più clamore, non rimase confinato ai borbottamenti della stampa locale e dilagò fino a quella internazionale, diffondendo un allarme generalizzato sulla triste sorte del sito archeologico più importante e grande del mondo ridotto ormai in stato di semi abbandono.

Naturalmente la polemica che ne seguì coinvolse la politica e finì per travolgere il ministro dei Beni Culturali dell’epoca, il mite Sandro Bondi di Forza Italia, inchiodato alla Camera dei Deputati da una mozione di sfiducia individuale. Dal Quirinale tuonò Giorgio Napolitano parlando di “vergogna per l’Italia” ed esigendo “spiegazioni immediate e senza ipocrisie”. Si riaccendevano così i riflettori sulla “illegalità feroce dell’area pompeiana” che faceva degli Scavi un caso clamoroso di inefficienza, abbandono, incuria, clientelismo, violazione delle leggi. Dal 2008 lo stesso Bondi aveva pensato di affrontare il caso nominando dei commissari straordinari sotto l’egida della onnipotente Protezione Civile di Guido Bertolaso, ma l’esperienza non era stata felice come proprio i crolli dimostravano: i commissari si avvicendavano tra mille polemiche (uno di loro finì poi anche condannato per irregolarità) senza che un qualche risultato si potesse raggiungere: la gestione di Pompei rimaneva uguale a se stessa, anzi peggiorava.

Strade e domus chiuse da anni, puntellamenti e transenne abbandonati in certi casi da decenni, addirittura dal terremoto del 1980, perdita di intonaco per mancanza di manutenzione ordinaria, aperture a singhiozzo a causa degli scioperi e delle continue assemblee sindacali del personale (convocate guarda caso alle 9 del mattino, al momento dell’apertura dei cancelli), custodi introvabili e di scarsa professionalità, guide non autorizzate, cani randagi e spazzatura ovunque, vegetazione infestante, scritte vandaliche, mappe introvabili perché la tipografia che le stampava non era pagata da troppo tempo, assenza di aree di ristoro e di cartelli esplicativi, e poi all’esterno le costruzioni abusive a ridosso dell’area e un suk di bancarelle di paccottiglia che, insieme ai parcheggi selvaggi di torpedoni e automobili, strozzava l’ingresso degli Scavi in una confusione indescrivibile ma “molto pittoresca”.

Naturalmente i turisti protestavano, soprattutto gli stranieri, i giornali locali polemizzavano, qua e là interveniva anche la Procura di Torre Annunziata mentre il Comune di Pompei era troppo indaffarato ad affrontare le inchieste di camorra che lo riguardavano, per occuparsi anche dell’archeologia. Senza contare i tanti furti impuniti di reperti da parte di tombaroli attivissimi e, loro sì, molto efficienti: a Civita Giuliana i Carabinieri nel 2007 scoprirono che un pregiudicato del luogo aveva scavato un tunnel ventilato che arrivava direttamente dentro una domus scoperta nel 1907 e successivamente richiusa, contenente parecchi reperti tra cui colonne, macine in pietra lavica, mortai in pietra, ecc.

Intanto diminuivano i visitatori: dal 2007 al 2009 c’era stato un crollo del 18,6%, da 2 milioni e mezzo a 2 milioni, numeri oltretutto imparagonabili a quelli di altre istituzioni culturali europee. Pompei, con il valore inestimabile dei suoi 44 ettari (su 66) di resti archeologici riportati alla luce, dei 2 milioni di me- tri cubi di murature, dei 17mila metri quadri di decorazioni parietali di strepitosa bellezza e di enorme valore documentale, dei 12mila metri quadri di pavimenti, dei 1500 edifici, decisamente non meritava quell’oltraggio.

Poi, appunto, arrivò lo scandalo della “Schola”.

Intervenne l’Unesco che nel 1997 aveva dichiarato gli scavi archeologici di Pompei, Ercolano e Oplontis “Patrimonio dell’Umanità”. Un titolo onorifico che era ormai a rischio a causa di una gestione “responsabile della devastazione”, come scriveva il New York Times. Analoghe parole di condanna si leggevano sui giornali di tutto il mondo. Si mosse in aiuto l’Europa, che siglò un accordo con il governo italiano e concesse un finanziamento di 105 milioni per risollevare Pompei: bisognava spendere quei soldi in quattro anni, dal 2012 al 2015. Si trattava di ridurre il rischio idrogeologico, consolidare le strutture murarie, restaurare le decorazioni, perfezionare la videosorveglianza, crea- re le coperture per permettere l’accesso ai turisti. Facile a dirsi…

Nel frattempo, anno 2013, a Roma era cambiato il governo e quindi al Collegio Romano sedeva un nuovo ministro: il democratico Massimo Bray, raffinato intellettuale pugliese, direttore dell’Istituto Treccani. Tra le prime cose che Bray volle fare fu di andare a Pompei come un qualunque turista. Prese la Circumvesuviana da Napoli e si fece un giro in solitudine: ne uscì sconvolto. Scoprì autorità in permanente conflitto tra loro, commissari che si occupavano soprattutto di farsi pubblicità, mecenati privati italiani ed europei che si offrivano ma poi fuggivano a gambe levate, e spese senza senso come le centinaia di migliaia di euro per la costruzione di una porta accanto all’anfiteatro.

Il neo-ministro rivoluzionò la struttura di vertice del sito: accantonata la strada dei commissari che non aveva dato buoni risultati ma solo annunci, iniziative propagandistiche e qualche caso giudiziario, nominò il nuovo sovrintendente collocandogli accanto un direttore generale del “Progetto Pompei” con compiti amministrativi, di controllo della legalità e di stazione appaltante. Per il primo incarico scelse Massimo Osanna, archeologo e professore universitario alla Federico ii di Napoli, già sovrintendente in Basilicata; per il secondo un generale dei Carabinieri, Giovanni Nistri, che nel 2018 sarebbe diventato comandante dell’Arma.

Fu quella la svolta per Pompei. Naturalmente ci furono le solite polemiche, ma Bray tirò dritto e affidò a Osanna e Nistri, che di lì in poi avrebbero combattuto spalla a spalla come due legionari romani, il compito di difendere quel luogo straordinario e di lavare la vergogna nella quale l’Italia intera era precipitata.

Come diceva Bray, il problema non erano i soldi (infatti i 105 milioni a due anni di distanza ancora aspettavano che qualcuno li spendesse) ma l’organizzazione e il personale. Osanna e Nistri non avevano i poteri straordinari dei commissari ma dovevano seguire le procedure ordinarie, eppure riuscirono a far marciare le cose. Innanzitutto assumendo dei giovani qualificati (soprattutto archeologi ma poi anche archi- tetti, ingegneri, vulcanologi, paleobotanici, archeozoologi, antropologi, speleologi) e mettendoli al lavoro insieme ad altri tecnici loro coetanei che le precedenti gestioni avevano emarginato. Furono creati dei team interdisciplinari con il compito di controllare gli scavi palmo a palmo. «I muri crollavano e a Pompei non c’era un solo ingegnere», ricorda oggi Osanna divenuto nel 2020 direttore generale dei Musei, «e così li assumemmo noi». Nel frattempo Nistri controllava le gare d’appalto: si era accorto che a vincere erano sempre le stesse ditte del posto, guarda caso, e che nessuno controllava lo svolgimento del lavoro.

Con il programma “L’Italia per Pompei”, mediante alcuni accorgimenti nei bandi le gare furono riaperte alle migliori professionalità nazionali che arrivarono in Campania e collaborarono con le squadre interdisciplinari di coordinamento e di controllo formate da Osanna. Già questo impediva che, come era accaduto nel passato, le ditte appaltatrici lasciassero nelle domus i residui dei lavori edilizi, per risparmiare i co- sti dello smaltimento: nessuno d’altronde aveva fino a quel momento contestato il malcostume.

Anche sui custodi ci fu un cambio di passo. Attraverso l’ales, la società in house del Ministero, arrivarono cinquanta giovani laureati e plurilingue con il compito di accompagnare i turisti nelle domus dando le necessarie spiegazioni storico-artistiche. Non più insomma racconti fantasiosi in stretto dialetto partenopeo con richiesta finale di mancia, ma una esibizione di decoro e professionalità. Pompei cambiava faccia.

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