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Elisabetta Benedetti. I gatti vedono meglio al buio

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Esiste forse una città che non possa tingersi di giallo? Esiste forse un luogo al mondo monocromatico? L’umanità latente viaggia da sempre nella multidimensionalità dell’essere, presenza ingombrante e giocoforza stimolo silente all’incedere. E in questo binomio incalzante, a cavallo dei tempi, ha innalzato cattedrali spesso abbassando lo sguardo.

La dispersione in/di un attimo, l’insicurezza di un viaggio senza ritorno, l’eterno conflitto interiore di un uomo che si è fatto carne, incapace di assaggiarsi, schifato da quel proprio io, come se la nascita e la morte fossero una casualità.

Titolo arguto I gatti vedono meglio al buio, d’altronde tutti questi sensi iperattivi non fanno altro che insabbiare il cammino della nostra vita. E forse tocca metterne a tacere qualcuno per poter vedere.

Ma quale sarebbe il senso di marcia del Commissario Bessi? Si direbbe che brancoli nel buio per vederci meglio, eppure, in quella vasta immensità fatta di piccoli uomini, perlustra scrupoloso la città del vento alla ricerca di verità molto più grandi dell’uomo stesso.

La bellezza nella vastità e le crepe dell’individualità. Trieste è un’arpa docile, aguzza e metallica, scandagliata come e più di un corpo umano esanime, i suoi vicoli sono vasi sanguigni bluètte tinteggiati di un pallido bordeaux. Sotto la coltre spessa, un manto acrilico, sintesi artificiosa di uno schema cerebrale ancestrale solo riadattato per il contemporaneo. La colpevolezza abbraccia la superficialità nella ricerca estenuante di una nuova maschera costruita per l’occasione.

Benvenuti nel teatro sfrontato del: se non mi vedi non mi senti ma faccio di tutto per graffiare. Elisabetta Benedetti, laurea in Scienze politiche, master in studi internazionali strategico-militari, dottorato di ricerca in Scienze strategiche, consulente indipendente per le esercitazioni NATO è al suo esordio nel romanzo. Ha pubblicato in precedenza Il treno, racconto lungo del 2006, e Il Sole Il Silenzio La Musica, raccolte di poesie del 2018.

La sua personalità disciplinata, vaga tra le pagine lasciando l’impronta sul passaggio del Commissario Bessi, una sorta di solitario asintomatico del paesaggio mutante, in preda a continue colluttazioni col villaggio dei dannati. La Trieste spigolosa, crocevia di generazioni contrastanti, la spinta giovanile all’autodistruzione, la spinta adulta all’assoluzione nel peccato. Vittime viventi e morenti, storie di quotidianità votate al soffocamento delle libertà, private del coefficiente anti-standardizzazione: l’assassinio della routine. È proprio nell’ineffabile abitudinario percorso delle anime smarrite che i dannati fiutano l’osso da sbranare, come una gara all’ultimo dei terrestri.

E se fossimo tutti potenziali serial-killer di quella cantilena morente chiamata vita banale di tutti i giorni? Crocevia di assoluzione e dissoluzione, beneplacito moralizzatore e smarrimento caotico. Non sarà di certo l’ennesima app-social ad assumersi tutte le colpe di questa disumanizzazione imperante. Ckaos è solo la punta di un iceberg grosso e grossolano, marcatore tumorale di un cancro diffuso: l’odio per il prossimo. Come riempire i vuoti con una enorme nuvola di zucchero filato nero pece.

Trieste da attraversare con un ago nel braccio, il noir si tinge di beige-Sahara, le mani non sono mani e gli occhi non sono occhi. Tutta l’inquietudine di un passaggio di consegne disomogeneo tra le agonie del contemporaneo. Elisabetta entra camera a mano nelle stanze di ciascun personaggio per mostrarci come si comporta la selvaggina prima della partita di caccia.

Da leggere con perseveranza per farsi trafiggere dalle incertezze dell’epoca e forse cominciare a cambiare passo, se non si vuole attirare l’attenzione delle tenebre.

Samuel Chamey

Recensione al libro I gatti vedono meglio al buio, di Elisabetta Benedetti, Robin Edizioni 2020, pagg. 291, € 15

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