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Emanuela Cocco. Zona 42

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In copertina uno sbaffo rosso attorcigliato. Verrebbe da pensare a dei graffi, forse una ciocca di capelli o un frammento di stoffa di una gonna strappata a forza; della violenza compiuta è rimasta quell’unica testimonianza: «sporca, guasta, sformata, rovinata per sempre». La gonna adesso è nelle mani dell’assassino, lo seguirà nella sua casa, è stata scelta, come tutti gli altri feticci che l’accoglieranno in quel luogo di morte e silenzio in cui solo le cose paiono avere una voce in grado di raccontare.

È un mondo dove le persone restano a margine, quello in cui ci trasporta Emanuela Cocco nel suo Nodo per Zona 42, uno spazio di umanità postuma in cui la violenza e l’abuso, vengono raccontati attraverso un punto di vista “altro”. Non vittima, neppure carnefice, a dar voce dello scempio infame questa volta sono gli oggetti, i trofei appunto: Gingillo, Riccioli d’oro, feticci senzienti che l’assassino colleziona dopo ogni oltraggio. Loro e soltanto loro, gli orpelli accatastati nei cassetti, ammassati negli angoli, le cose di perekiana memoria di cui non occorre descrizione perché a questo giro di d’incubo saranno loro stesse a descriversi, raccontarsi, mostrarsi nel prima, il luogo di provenienza e nel dopo, all’interno della casa del boia, dando vita a un dialogo/inconscio collettivo che si muove nelle ombre di un’abitazione gravida di memorie sudicie, umori di sopraffazione.

«Una volta siamo servite a qualcosa di preciso, ora sentiamo di non avere una destinazione.

Lui ci sta ignorando. Il nostro scopo ci sfugge, a volte siamo percorse dai suoi desideri, forse è questo quello che vuol dire essere un trofeo.»

Le cose hanno paura?”, il titolo del paragrafo a pagina 46, una domanda su cui sembra vertere l’intera anima weird di Trofeo. Quando l’umano resta all’esterno dell’inquadratura, cosa ne rimane della sua esistenza, della sua anima? Scaltra e profondamente lucida è dunque la scelta dell’autrice di partire proprio dalla materia, oggettificando il soggetto, in un esperimento di sostituzione dove ogni vittima è ridotta a nomignolo (Occhi verdi) mentre l’abito, il pettine, la bambola, diventano protagonisti empatici della coazione a ripetere di una mente priva di scrupoli, ancor più di mezzi.

In un panorama odierno di costante disumanizzazione, “mettersi nei panni” (letteralmente) dell’inanimato, della prodotto-replica di infiniti altri tormenti (replicati), per raccontarne il vissuto soggettivo e le sensazioni profonde di un dramma, ahimè, fin troppo contemporaneo, non fa che amplificarne la sua anima perturbante, generando un eco collettivo destinato a amplificarsi e moltiplicarsi nelle stanze disabitate dei nostri timori più torbidi.

«La porta della sua camera da letto è chiusa a chiave. Meglio non indagare. Si accontenterà di aprire il cassetto della scrivania. Il cassetto è ingombro di cose da nulla, spazzatura, rifiuti, un pezzo di stoffa, un vecchio fermaglio. La ciocca di capelli biondi inquieta la donna. Il sonaglio di plastica colorata la fa impallidire.»

Il rosso dell’illustrazione, che dovrebbe richiamare l’aspetto orrorifico del Nodo, non deve però trarre in inganno: lo scenario popolato dalla Cocco non rimanda al gore gratuito e neppure alla violenza più becera. Benché questi spettatori inermi possano ricordare a tratti le orbite spiritate della casa delle bambole di Pascal Laugier o i manichini accatastati nel magazzino del Maniac per eccellenza, la lingua dell’autrice viaggia sempre su un registro parattico di pregevole ricercatezza. Lo squallore non è mai esplicito, bensì filtrato attraverso l’eviscerazione del dettaglio, della sfumatura appena percettibile che viene amplificata da un punto di osservazione che verte su baricentro perennemente disallineato, vulnerabile, esterno alle didascaliche comfort zone a cui la narrativa di genere ci ha abituato.

Invitandoci all’adozione del loro punto di vista, le voci narranti dei trofei battezzano una parola per capitolo. La parola, appunto, “spettacolo”, “tempo”, “marionetta” funge da denuncia, legante ma anche salvezza al declino irrazionale. La parola dunque, come unico perno a cui aggrapparsi, che sia una mano umana o di bambola, poco importa, purché quest’ultimo gesto disperato possa essere monito per una rinascita che parte dall’annullamento delle parti. Perché corpo e oggetto/corpo o oggetto qui si trovano al cospetto della medesima, disperata, ultima domanda: che ne sarà di noi?

«Stare tra le cose come una pari. Non doverle muovere, non servirmene. Stare senza una giustificazione e non trovarlo intollerabile. Non abitare nessun pensiero. Non aver bisogno delle parole.»

In questo contesto alienante e claustrofobico, il killer è presto ridotto a un omuncolo di comuni fattezze. La sua statura ci appare piccola, la sua aura ridimensionata e le sue gesta, filtrate attraverso il nuovo punto di vista corale assumono, nel corso della narrazione, le fattezze di capricci infantili. Uno strofinio frettoloso, una traccia olfattiva ricercata nella stoffa sdrucita, bisogni mortificanti che provengono da quello stesso spazio di sopraffazioni disumane e disumanizzanti in cui il weird del piano materiale, per non impazzire, per opporre un ultimo baluardo di resistenza, si sostituisce alla banalità dell’individuo.

Se l’orrore è troppo umano per avere una sua voce, tocca farlo raccontare alle cose.

Stefano Bonazzi

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Trofeo

Emanuela Cocco

Zona 42

9,90 euro — 88 pagine

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