Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Emmanuelle Pagano anteprima. Una volpe a mani nude

Home / Anteprime / Emmanuelle Pagano anteprima. Una volpe a mani nude

L’Orma Editore porta sugli scaffali, tradotto da Camilla Diez, Una volpe a mani nude, il nuovo libro, finalista all’International Booker Prize 2020, di Emmanuelle Pagano, autrice francese tradotta in diverse lingue tra cui l’italiano, lo spagnolo, il tedesco e l’ungherese. Dopo studi di estetica del cinema e laurea in arti plastiche, la Pagano esplora diverse discipline artistiche, collaborando con pittori, musicisti, cineasti e coreografi, oltre a ricevere, per la sua vasta opera narrativa, riconoscimenti, quali il Prix Wepler e, per Gli adolescenti trogloditi (L’Orma Editore 2020), il Premio dell’Unione europea per la letteratura. Originale, lirico è questo puzzle di personaggi e destini che si mescolano ai margini del vivere. Odori che parlano, stanze di ospedale e di case periferiche, strade statali, piccole vie provinciali, sentieri, incroci scelti con cura, parcheggi vuoti, “luoghi disabitati, accanto a edifici desolati” sino a quel lago che ha coperto d’acqua un intero paese tacitando anche la memoria dei suoi abitanti. Una trentina di piccole storie, la cui radicalità pare arrivare da “una mancanza” e da una rivendicazione: esserci nonostante tutto, come “l’albero di Natale che resta ancora a galla nel centro del lago”.

#

Maggiorenne d’estate

Ricordo perfettamente quel giorno del luglio 1974. Era quasi sera, e come tutte le sere d’estate il padre era fuori a giocare a bocce, davanti casa. Quel giorno il mio corpo si è contorto dalla libertà. Non potevo crederci. Ancora oggi, trentasette anni dopo, mi sembra di sentire una schiera di scoiattoli inarcarsi sotto le mie costole. Respiravo a fatica e tuttavia in pochi secondi ero libera, anzi, liberata. E quella liberazione mi toglieva il fiato.

In teoria non avevo il permesso di ascoltare la radio.

Il presidente della Repubblica: Valéry GISCARD D’ESTAING.

Del resto non avevo il permesso di fare niente. Ma il padre era fuori e la madre a fare la spesa. L’aria dentro quella casa sapeva di umido, tipo cesta dei panni sporchi, una cosa nauseante, insomma. Un puzzo di detersivo, sudore, polvere e anche, ma molto sommesso, un aroma di vigna e grappoli che maturano lenti in un bagno di sole. Mancavano due mesi alla vendemmia. Ero in una solitudine gelosa, imbrattata regolarmente dall’eco rabbiosa della pétanque, due squadre da tre maschi ciascuna nell’afa dell’estate finiscono per forza di cose a sbraitare. Ero in ginocchio a strofinare le mattonelle, con la faccia nel bagnato, nell’odore dello straccio e il moccio delle mie lacrime. Ho sentito lo schiocco metallico e trionfante di un fermo, una bocciata, le grida di stupore invidioso. Mi sono alzata per prendere un fazzoletto e ho visto la radio, l’oggetto feticcio del vecchio, il suo possedimento, il suo bene, l’orecchio siamese a cui stava incollato per ore. Quanto lo odiavo.

Il Primo ministro, Jacques CHIRAC.

Lo odiavo così tanto, il padre, che talvolta mi sembra di odiarlo ancora, anche da morto. Anche da morto fa lo stesso rumore di quando era vivo. Un rumore nella mia testa. Un rumore forte che mi esce piano piano dal naso, come filtrato dal mio respiro. Come un gemito. Il padre non parlava mai, ma io sentivo tutto quello che non diceva, tutto quello che non urlava. Quanto sei brutta figlia mia. Adesso te la insegno io, la vita. Ti credi più furba, ora che hai preso la maturità. Ma che ti credi, poveraccia? Che gli studi ti insegnano la vita? Ah, la signorina ha letto, la signorina è una sapientona, ma la signorina non sa neanche stirare una cazzo di camicia. Una buona a niente. Le pensava fortissimo, quelle parole che mi stendevano al tappeto, e a volte la madre mi raccattava per ridirmele a voce alta, parole che restavano lì accanto, berciate a due centimetri dalla mia faccia ma non nella mia testa. La madre non era mica come il padre, la madre parlava per davvero, e spesso, e urlava pure, ma non mi faceva né caldo né freddo, non mi entrava dentro con la stessa precisione del silenzio vischioso del padre, pieno di quei non detti più pesanti delle parole, e talmente più efficaci. Il suo sguardo posato su di me era già un insulto.

La vecchia invece era meno violenta, ma aveva paura di lui. Una paura tutta costretta in una brutalità subdola. Era prescrittiva. La madre ricorreva a una violenza preventiva. La madre mi dava ordini per evitare i rimbrotti del padre. Io pulivo, cucinavo, lustravo le scarpe del vecchio. La maturità l’avevo presa da un anno ormai, il liceo è bello che finito e l’università te la scordi, cosa pensi, che ti paghiamo gli studi? Tanto a che ti servono? Nella radio del vecchio c’era stato il Maggio ‘68, allora l’università non se ne parla proprio, la maturità basta e avanza, e dovevo pure dire grazie se mi avevano permesso di arrivare fin lì. Tanto a che mi serviva. Se è per finire come quegli hippy drogati, quei capelloni trozkisti di cui parlano alla radio, quegli anarchici, tutti uguali, una massa di criminali intellettualoidi.

Il ministro dell’Interno, l’onorevole Michel PONIATOWSKI.

Non mi hanno mai picchiata. La loro crudeltà era riposta nelle parole, piegata e ripiegata nelle loro frasi. Nelle frasi della madre e nel mutismo del padre. Se disobbedivo, lui prendeva una bella boccata di silenzio ed espirava tutto il suo disprezzo in un alito marcio, trattenuto troppo a lungo. Oppure aggrediva verbalmente la vecchia. Perché alla vecchia non poteva parlarle senza dire niente, lei non avrebbe mai capito. Mio padre esercitava da solo il suo schifosissimo potere paterno scaduto. Alla madre ripeteva spesso roba tipo sta’ zitta, donna, autorità parentale un cazzo, stronzate da comunisti, in una famiglia c’è un capo solo. Le sbraitava in faccia le sue convinzioni da fascio, ma tanto la madre non rischiava certo di finire femminista, perché di politica non ci capiva proprio una cicca. Tu fatti gli stracavolacci tuoi, donna, che non sai manco farti obbedire da quella lì. Io ero spesso quella lì, l’altra. Ma guardala.

A volte rispondevo al posto della madre, osavo dire ma smettila, non è mica colpa sua, poverina. Per la mia insolenza venivo reclusa in camera.

Il padre non sopportava nessuna obiezione, nessun commento, nessuna parola, nessuna argomentazione, che non uscisse dalla sua radio di Stato.

Il guardasigilli, ministro della Giustizia, Jean LECANUET.

Le serate estive di bocce erano come la radio, sacre, ridicolmente intoccabili, a meno che, per miracolo, non piovesse. Me ne stavo sul chi va là, perché il padre perdeva e tornava sempre arrabbiato. Tutte le sere vedendomi faceva una smorfia, una smorfia silenziosa, e voleva dire che la casa non era in ordine, o il bucato ancora umido, la cena raffazzonata, voleva dire che la madre avrebbe avuto da ridire prima di lui, a volte ben prima che lui tornasse e facesse quella smorfia in silenzio. Perché la vecchia sapeva quanto me che era quasi sera, e allora preferiva strillare in anticipo. Le conoscevo a memoria, le scenate profilattiche delle sere estive.

Nel tardo pomeriggio, quindi, io ero invariabilmente in ginocchio, sudata fradicia, e la madre in piedi al mio fianco a criticare i miei gesti, ce n’è ancora lì a destra, e pure qui, ma sta’ un po’ attenta, quanto sei sciatta, poveraccia, hai voglia a insegnarti, tanto tu non ascolti mai.

Ma quel tardo pomeriggio lì, nel luglio del 1974, non era come gli altri.

Il padre aveva allungato alla madre la lista della spesa del giorno prima. Era stropicciata e sporca perché, colto da un dubbio improvviso e meschino, era andato a rovistare nella spazzatura per ripescarla e controllare. Chissà, magari poteva rimproverarle qualcosa. C’erano delle parole sottolineate, si era scordata almeno due cose. E così lei, confusa e seduta stante, era tornata al supermercato. Io ero sola, nel rumore umido della pulizia del pavimento e l’eco terrosa delle deflagrazioni delle bocce, che entrava attenuata, quasi inoffensiva, dalla finestra aperta.

Dovevo ricordarmi di chiuderla, quella finestra, prima di accendere la radio.

Il ministro della Difesa, Jacques SOUFFLET.

Prima delle mie fughe avevo sempre richiuso scrupolosamente la porta e tutte le finestre. Tutte e tre le volte. La polizia aveva suonato a casa. Tutte e tre le volte. Il vecchio gli aveva aperto e mi aveva tirata dentro in un’afasia pesante e carica di vergogna. Mi avevano riacchiappata tutte e tre le volte. Non ci avevo più provato. Aspettavo i ventun anni con pazienza e rabbia. Ne mancavano poco meno di due. Una tenacia, una determinazione che mi facevano tirare a lucido il pavimento con le lacrime agli occhi, in silenzio. Se davvero si può chiamare silenzio. Non dire niente. Rassegnarsi. Le lacrime si mischiavano bene al detersivo, ma il moccio no, soprattutto se la rabbia si mangiava la pazienza, comunque sia ricordo che quel giorno di luglio di più di trentasette anni fa mi sono alzata per andare a prendere un fazzoletto. Sono passata davanti alla radio e mi è venuta una voglia, una voglia matta di ascoltare quello che il padre si metteva nell’orecchio (ma proprio attaccato all’orecchio, voleva essere l’unico a seguire il notiziario).

Il segretario di Stato ai Dipartimenti e Territori d’oltremare, Olivier STIRN.

Le bocce si sono scontrate di nuovo quando mi sono soffiata il naso, un altro fermo perfetto. L’urto mi ha convinta. Potevo respirare tutta la polvere sollevata dalla sfera. Mio padre sicuramente stava perdendo, dalla finestra aperta entrava puzza di rancore, un odore rancido, un misto di sudore e acredine, così familiare. Sentivo pure l’odore degli altri, quelli che anche da puliti si portavano dietro un fetore di gasolio ovunque andassero, quelli che si facevano il bagno nell’acqua di Colonia, quelli che sapevano di vite in maturazione.

Mi chiedevo come chiudere la finestra senza farmi vedere. Mi sono avvicinata a gattoni, poi mi sono tirata su fino al davanzale, molto lentamente. Ho intravisto il gesto del padre, crepuscolare ed empatico, mentre sollevava la boccia al volto per prendere la mira. E nell’istante in cui il suo sguardo è scomparso dietro la sfera io ho chiuso le ante alla svelta. Poi, con un unico movimento mi sono accovacciata e ho teso il braccio verso la radio.

L’Assemblea nazionale e il Senato hanno approvato la legge n. 74-631 del 5 luglio 1974 che fissa la maggiore età a diciott’anni.

Sono rimasta accovacciata per qualche secondo, con il corpo contratto da una specie di mal di pancia che mi prendeva fino agli occhi, alle ginocchia, dappertutto. Gli scoiattoli imprigionati nel mio petto spingevano per uscire. Quel turbamento era un dolore che non mi dava dolore, mi contorceva soltanto, mi strizzava i muscoli, e quando ho realizzato, quando ho realizzato ciò che stavo ascoltando, mi sono rilassata di botto. Mi sono alzata. Il padre mi ha vista. L’ho visto mentre mi vedeva, e senza posare le bocce, che pesavano in ciascuna delle sue mani, l’ho visto dirigersi verso casa. Sono corsa a prendere i miei documenti e un po’ di soldi. Era facile, era tutto nello stesso posto, nel cassetto grande della credenza, non era nemmeno chiuso, c’erano le buste, i francobolli, tutte le carte d’identità di tutta la famiglia, e gli elastici, le graffette, un mucchio di scarto e del cavolo.

Ho alzato il volume della radio e sono uscita per andargli incontro.

Tutt’attorno a me ho sentito i commenti attoniti dei vicini, la radio in sottofondo e il mutismo del vecchio sgretolarsi al mio passaggio. Mi sa che mi ha parlato. Mi avrà dato della pazza, della poveraccia, non ricordo più, le sue parole erano accanto a me come quelle della madre, e non dentro, poteva pure aprirla per la prima e l’ultima volta, quella sua bocca miasmatica da capofamiglia. Ero maggiorenne, lo avevano appena detto alla radio.

Sono andata via camminando dentro al campo di gioco, scombinando la disposizione delle bocce. L’anno prima un cantante andava gridando che il disordine è l’ordine meno il potere. Il padre non aveva più alcun potere su di me, poteva pure riporlo sulla credenza, il suo potere paterno obsoleto, la madre l’avrebbe volentieri spolverato al mio posto. Mi ero sporcata tutta sfregando il pavimento. Non avevo valigie. Ero in un tardo pomeriggio di sudore e di scoiattoli agitati, puzzavo di detersivo. Ma avevo un fazzoletto, qualche banconota, i miei documenti e il mondo che mi accoglieva tutta nel suo profumo di uva imbevuta di sole.

Click to listen highlighted text!