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Ezio Sinigaglia anteprima. Fifty-Fifty. Warum e le avventure Conerotiche

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Mi sono accorto di una curiosa equazione: quanto più è grande l’editore, tanto più è piccolo lo scrittore italiano proposto. Salvo rare eccezioni, ho avuto l’impressione che il meglio della nostra letteratura contemporanea risieda in una florida e creativa periferia. Un’accolita di raffinati corsari che resistono, che combattono e vincono – tante volte – battaglie all’arma bianca, venendo al contrattacco con elmi ed armi sempre nuove.

Non fa eccezione l’editore TerraRossa – in queste settimane impegnato sul fronte Premio Strega – che ci presenta l’ultimo romanzo di Ezio Sinigaglia, dal titolo Fifty-Fifty, Warum e le avventure Conerotiche, che proponiamo in anteprima. 

Ezio Sinigaglia, milanese, ha insegnato scrittura argomentativa all’Università di Milano Bicocca. È stato traduttore; redattore; fotocompositore; copywriter e ghostwriter. Autore di guide turistiche. Ha scritto Il pantarèi e lo scorso anno è stato candidato al Premio Strega con il romanzo L’imitazion del vero. Ha attraversato la letteratura e i suoi ingranaggi in maniera trasversale come quei pionieri, piloti/meccanici, che costruivano, aggiustavano e pilotavano le proprie auto da corsa e le conoscevano, per questo, in ogni bullone, ogni limite, ogni più piccola saldatura.

Quella di Fifty–Fifty, o Fifi, Phephen, Phéphane o Féfienne, come si diverte a chiamarlo, di volta in volta, lo scrittore Warum, è una storia semplice. Warum è innamorato del più giovane Fifi e, per lui, rinuncia a qualsiasi altra relazione.

Non succedono molte cose eppure, leggendo, si avverte la sensazione che tantissimo avvenga. Si è travolti da una parallasse costante, si è fermi e ci si muove, si viene strattonati, sballottati da un posto all’altro, un ricordo, un momento, un episodio del passato. Eppure nulla, poco, accade.  Come sia possibile, è un prodigio del raccontare.

La scrittura di Sinigaglia è dotata di un lievito naturale. Il paragrafo si gonfia, si evolve, prende forma in notturna. I capitoli sono Puck ubriachi e molesti, dei Campanellino che cominciano a ronzare nella stanza, che ti svegliano alzandoti le palpebre, che t’infestano i pensieri. I generi, le identità, tutto è rarefatto dentro l’effervescenza di una lingua che arranca dietro al pensiero. Sinigaglia frantuma lessemi con denti di diamante, polverizza la lingua e la rimodella. Ogni frase è un origami.

Avrei dovuto limitarmi a presentare questo libro, parlare un po’ dell’autore, fare un sunto della trama e consegnare un estratto. Lasciare che fossero i lettori a farsi un’idea. Sarebbe stato più corretto, forse, era quanto mi veniva richiesto, ma ci sono volte in cui il libro letto ti prende la mano e cammina con te, anche quando lo hai chiuso. Dovremmo sempre lasciarci guidare dalle storie perché di storie siamo fatti. Altrimenti, siamo ottusi come candeline senza desiderio.

Pierangelo Consoli

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Il secondo genio in casa Freud

Il paranoico ha un particolare magnetismo, con rapida inversione dei poli. Attrae fuggevolmente, per poi respingere per sempre. Era di una sgradevolezza insuperabile, il vecchio Nap. L’unico lato buono: faceva ridere. Di qualunque argomento si parlasse, dal tripanosoma del Gambia alla leggenda azteca di Quetzalcóatl, dal metodo champenois all’Ogino-Knaus, dal segreto della pietra filosofale a quello delle alborelle in carpione, Nap voleva saperla sempre più lunga degli altri. Non c’era un angoletto dello scibile umano, per quanto appartato e trascurabile, sul quale non avesse un pregiudizio. E intorno a questo costruiva virulente orazioni. Immancabilmente aveva in serbo una verità, un malinteso, un fenomeno, un retroscena da svelare. Un’idea strampalata da imporre a tutti i costi. Un’informazione riservata da propalare. Era impagabile. […]

A me, la domenica in cui feci la sua conoscenza, era occorso un incidente increscioso. La Giaguara mi aveva invitato per il tè allo scopo esplicito di presentarmi a suo marito. Si erano sposati già da qualche mese. Ero militare. Alla prima licenza mi sollecitò alla visita con tale calore che non mi fu possibile sottrarmi. In realtà non teneva tanto a farmi conoscere Nap, quanto a far conoscere me a lui. Gli aveva parlato di me come dell’intelligenza più brillante della mia generazione. Forse del secolo. Sull’intero globo. Ciò mi predisponeva, a mia insaputa, ad aggressioni feroci da parte di Nap, che apparteneva al mio stesso globo, al mio stesso secolo e, non avendo che cinque anni più di me, perfino alla mia stessa generazione. Era fermamente intenzionato a demolirmi. Mi attaccò su James, il primo autore del quale mi capitò di parlare con ammirazione. Proclamò con aria sprezzante che, in famiglia, l’autentico genio non era Henry, ma William: era lui ad aver teorizzato il flusso di coscienza, che suo fratello non aveva fatto altro che applicare in modo rozzo e incompleto. La confusione mentale che era all’origine di una simile affermazione mi lasciò perplesso. Ma sapevo troppo poco di William James per avventurarmi in un dibattito filosofico. Mi limitai a sorridere. Gli domandai, in tono scherzoso e conciliante, su quale base volesse escludere la possibilità che nella stessa famiglia nascano due geni invece di uno solo. Non conoscevo ancora Nap. Era la cosa peggiore che potessi fare. Prima di tutto, spostando il discorso da William James ai geni in generale, lo privavo del terreno su cui aveva scelto di dar battaglia. In secondo luogo, suggerendo l’ipotesi che anche Henry James fosse un genio come suo fratello, mettevo in dubbio la veridicità della sua affermazione primaria. Affronto intollerabile. E in casa sua! Vidi d’un tratto i suoi occhi assumere la fissità orizzontale e la mobilità rotatoria della pazzia molesta. Vi si leggeva un odio furibondo che metteva i brividi. Deposi immediatamente la tazza sul piattino per non rovesciare il tè sul tappeto dallo spavento. Nap mi tenne sotto il tiro delle sue iridi fiammeggianti per trenta secondi buoni. Poi trasse dal fondo oscuro del suo disprezzo una voce agghiacciante da ventriloquo. Lenta, cupa, metallica. Mi sapresti citare il nome del secondo genio in casa Freud?

Tacqui, sbalordito. Era la prima volta che udivo un pazzo farsi scudo di Freud. Esaltarne la genialità. Accusarlo di non avere una famiglia all’altezza. Il pericolo di scoppiare a ridere era tale che la paura, al paragone, era un sollievo. Considerò il mio silenzio come una palese dimostrazione d’inferiorità. Dovevo sembrargli come un pugile barcollante per un gancio sinistro alla mandibola. Allora mi mise alle corde. Una gragnuola di pugni. Al volto. Al bersaglio grosso. Colpi bassi. E in casa Picasso? cominciò a elencare in un crescendo trionfante. E in casa Keynes? E in casa D’Annunzio? Non era il momento di sottilizzare sulla scelta dei geni, o di contestargliene qualcuno. Stavo zitto. Rannicchiato nella mia poltrona. Il collo incassato nelle spalle, come quando la grandine ci sorprende senz’ombrello. E in casa Heidegger? E in casa Russell? E in casa Hawking? Ormai, dal basso ventriloquo, saliva vertiginosamente all’acuto isterico. I vetri tremavano. Tremava anche la Giaguara, povera anima, e non osava sollevare gli occhi dal tappeto. Non si sapeva come fermarlo. Per fortuna l’intelligenza è merce rara. E lui, per qualche sua ragione tutt’altro che palese, sembrava volersi limitare ai contemporanei. Entro cinque minuti avrebbe esaurito i proiettili. Si trattava solo di non ammazzarlo prima. E in casa Le Corbusier? E in casa Chaplin? E in casa Fermi? E in casa Einstein? Era da sette geni che lo aspettavo al varco. Non ne potevo più. Rimpiangevo di aver lasciato a Palmanova la Beretta d’ordinanza. E il caso volle che, dopo quella sfilza di nomi, Nap dovesse fermarsi a prender fiato. Irruppi con autentica gioia sadica: Il cugino, Alfred Einstein, era un insigne musicologo. Dissi proprio così: insigne. So essere provocatorio, quando voglio.

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Fifty–Fifty. Warum e le avventure Conerotiche. Ezio Sinigaglia, TerraRossa edizioni. 2021, pp. 268, euro 15,90.

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