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Filippo Tuena. Il volo dell’occasione

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Pare che certe storie possano nascere e compiersi solo a Parigi. Nella sua elegante cornice, tra rigattieri stracolmi di ricordi polverosi e raffinati bar in cui sorseggiare un bicchiere di Pernod si crea un’alchimia tutta unica, un limbo spazio temporale in cui il tempo assume i modi di un bambino capriccioso e le maledizioni non si accontentano di tormentare gli animi dei poeti trapassati.

Di tormenti e condanne è intrisa anche la materia della storia qui presente, opera edita in passato per Longanesi, Fazi e che oggi torna disponibile in libreria ad opera della pugliese TerraRossa, sotto l’egidia di Giuseppe Gidimonti Greco, all’interno della collana Fondanti, che da tempo si occupa di riportare alla luce “opere che hanno segnato un’epoca”.

Si potrebbe quindi considerare Il volo dell’occasione come una fiaba d’altri tempi, una ghost story la cui linfa attinge dal fulcro dell’ossessione più morbosa: la dipendenza da un’infatuazione totalizzante. Che sia amore o becero desiderio di possessione, poco importa, ciò che alimenta le giornate e le notti dei personaggi di questo giro di vite dalle tinte hitchcockiane è materia labile e ingannevole quanto il sogno.

«Meditavo sull’occasione mancata, sul viso di Blanche che si era avvicinato e che adesso si allontanava poco alla volta, seguendo un movimento circolare. Sapevo che quel sorriso si sarebbe di nuovo avvicinato, che di nuovo avrei avuto l’occasione. L’occasione, la dea rapida e silenziosa che non avvisa, passa accanto e vola via.»

Ci troviamo negli anni ‘90, nel cuore della capitale francese, il punto di vista è di colui che sbroglia il canovaccio: il caso vuole che un orologio di alabastro con l’incisione di una giovane danzatrice lo porti a conoscere Renant, un contrabbassista dai modi distinti e un tormento interiore che sembra legato allo scoccare di una determinata ora della notte. Un evento misterioso si compie ogni mese durante le notti di luna piena, tra le salette affollate del Flore e le camere soprastanti, qualcosa che lega l’enigmatico affanno del musicista ai destini dell’ammaliante Blanche e del giovane turco Altay. Anime (dannate) coinvolte in un trittico vizioso la cui frequentazione non potrà che sfociare nell’immancabile tragedia da cui nemmeno il protagonista resterà immune, trascinato con consapevole avidità in un turbine di delirio e violenza.

Blanche è infatti il simbolo del desiderio primigenio, femme fatale la cui algida bellezza è frutto di un immaginario ben rodato ma che nel romanzo di Tuena assume un duplice significato. La donna in abiti bianchi infatti, legata al concetto temporale si fa emblema di un accanimento tutto umano per le cose trascorse e che non possono tornare. C’è un passaggio esplicito nel romanzo in cui questo ci appare lampante: come una sorta di prefazione, lo scrittore romano parla di «coloro che vanno in cerca del passato. Quelli che inseguono una sorta di rivalsa, di vittoria contro le avversità. Innamorati del passato, vorrebbero tornare a quei tempi felici. Illusi. Non sanno che nulla è ripetibile, nulla ritorna. Perdiamo tutto, né ripossedere qualcosa che abbiamo amato ci restituisce il tempo in cui abbiamo amato.»

Eccoli dunque, i disperati che si rifugiano nell’utopia di un dominio in grado di liberarli dalle leggi del decadimento. I testardi, i ciechi, gli innamorati, folli incapaci di riconoscere quella patina biancastra e l’odore di muffa che si accumula sugli abiti e sui corpi delle anime che, come loro, pur di accettare l’evidenza dell’unica conclusione possibile, accettano il compromesso di una prigionia nel tempo ripetuto dell’unica città possibile.

Ci vuole una padronanza non indifferente della pasta letteraria nel traslare quella che poteva essere una canonica vicenda dalle tinte crime in un magnum opus le cui pennellate rimandano ai toni dei già citati Baudelaire, Poe, Henry James ma anche ad atmosfere più contemporanee. Si pensi a Mulholland Drive, all’accoppiata Diane/Betty incapace di sfilarsi la spada di Damocle che le confina in quello spazio impalpabile tra sogno e realtà che lentamente si ripiega sulle loro esistenze fino a portarle all’autodistruzione del subconscio.

Verrebbe quindi da pensare a una tragedia dell’essere genuinamente umana, non fosse che i soggetti di Tuena hanno la consistenza di spettri che si aggirano leggiadri e indisturbati tra le scenografie di un palcoscenico fumoso, deliziosamente grottesco, delineato con una penna sempre discreta, dai movimenti leggiadri e discreti, sinuosa bacchetta di un’orchestra la cui melodia, muove verso un continuo crescendo.

«Che importa allora il prezzo che si paga? Può la felicità fare i conti? Sottostare ai freddi calcoli della contabilità, del dare e dell’avere? Il caso, l’occasione, l’imprevisto sopraffanno la ragione. Ci si lascia cullare dalla meraviglia di una specie di musica delle sfere. E quasi si crede di essere stati capaci di possederlo, il caso, l’occasione. E nell’acquisto si rinnova il piacere del potere. Sembra quasi di ripercorrere il tempo, replicare gl’istanti passati, tornare indietro, e correggere, potendolo, il passato.»

Ci si lascia cullare anche dalla meraviglia di passaggi simili, forti di una limpidezza che lambisce la pagina e in questo ferisce, in questo ammalia, come la vita stessa, come il tempo despota il cui arbitrio ci è concesso solo nell’illusione di un profumo rubato, di un battito di ciglia, di un contatto fugace.

Che sia un piacere di tutti e per tutti dunque, tornare anche solo un istante all’aprile di quel 1994 e alle profetiche parole pronunciate da Mario Spagnol dopo aver letto la prima bozza del romanzo in esame: “La macchinetta funziona”.

Funziona terribilmente bene.

Stefano Bonazzi

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Il volo dell’occasione

Filippo Tuena

TerraRossa

15,50 euro — 176 pagine

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