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Francesca Cavallo anteprima. Ho un fuoco nel cassetto

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E’ tornata in libreria Francesca Cavallo, scrittrice, attivista, registra teatrale, imprenditrice, co fondatrice in Silicon Valley di Timbuktu Labs, la startup di media per l’infanzia con cui ha pubblicato la prima rivista iPad per bambini e l’acclamata serie di Storie della Buonanotte per Bambine Ribelli, tradotta in più di 40 lingue e venduta in milioni di copie in tutto il mondo. Nel 2018 si aggiudica il premio Publisher’s Weekly StarWatch Award a New York. Edite da Mondadori le sue: Storie della buonanotte per bambine ribelli 2 (2018), Io sono una bambina ribelle. Il quaderno delle mie rivoluzioni (2019), Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 vite di donne straordinarie (2020). Con Feltrinelli: Elfi al quinto piano (2019) e Il dottor Li e il virus con in testa una corona. Ediz. a colori (2020). Ora Salani pubblica Ho un fuoco nel cassetto, romanzo autobiografico di un’artista, di un’imprenditrice, di una donna, di una queer. Una storia densa, avventurosa che chiama in appello la libertà di essere se stesse oltre i pregiudizi, oltre gli schemi, oltre la paura. Una lettura che è augurio ad essere “radicalmente coraggiose”, senza fare “branco”, per creare “un sistema nuovo, tagliato su misura non per contenere il nostro desiderio, ma per magnificarlo”.

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Ricordo perfettamente il momento in cui vidi Elena per la prima volta. Fu davanti alla porta della ‘Paolo Grassi’, una sera dopo le lezioni, ed era inverno. Io indossavo un maglione rosa a collo alto, un paio di pantaloni verde militare con le pinces che adoravo, e le Birkenstock. Elena aveva un cappello con le falde, dal quale scendevano lunghi capelli biondissimi, e un cappotto verde. Quella mattina, quando ero uscita da casa, sapevo che l’avrei incontrata. Elena, infatti, era la migliore amica di Veronica. Veronica ci aveva parlato così tanto della ‘bionda’ (così la chiamavano i suoi amici più stretti) che io avevo iniziato a leggere il blog nel quale Elena raccontava le sue avventure a Berkeley, in California, e mi ero incuriosita. Quando ci incontrammo, ci tenevo a fare bella figura, e scelsi apposta quel maglione e quei pantaloni, perché ero convinta che mi stessero particolarmente bene. Da subito, Elena mi sembrò una persona diversa dalle altre: aveva un viso tondo, gote rosa e ruvide, occhi verde scuro con cui pareva mettere a fuoco sempre qualcosa di diverso rispetto a quello che aveva davanti a sé, e un’intelligenza fulminante. Forse era questo che la rendeva misteriosa. Non mi fu facile capire che impressione le avessi fatto io, quella sera.

Qualche tempo dopo, però, venne a vedere il nostro spettacolo, una versione di Chadzi Murat di Tolstoj in cui recitavo nei panni di due personaggi assolutamente minori e senza battute, ma – con mia grande soddisfazione – estremamente queer: un bel guerriero ceceno di nome Eldar e un maggiordomo francese di nome Jean. Dopo lo spettacolo andammo tutti insieme in una specie di birreria bavarese e, nel casino generale che sono tutte le cene con gli attori dopo una prima a teatro, a un certo punto mi accorsi che Elena mi guardava, con quell’aria un po’ incredula che – avrei scoperto – era una sua caratteristica. Quando ricambiai lo sguardo, ci mise un attimo a riscuotersi. Mi divertiva quel suo essere così nel suo mondo, perciò flirtai un po’ con lei sul marciapiedi davanti al ristorante, ma non successe niente: fu solo nella primavera successiva che, nella sua cameretta a Bologna (era tornata dal suo overseas a Berkeley e stava scrivendo la tesi per la laurea in Semiotica) ci demmo il primo bacio e facemmo l’amore per la prima volta, dopo aver guardato insieme una puntata dei Griffin su un materassino gonfiabile che aveva sistemato accanto al suo lettino singolo, l’unico elemento di arredo che aveva in camera, insieme a una piccola scrivania bianca. Quell’incontro diede il via ad alcuni mesi di grande passione: Elena non faceva quasi mai la spesa, e il suo frigo, così come la casa gigantesca in cui affittava una stanza da un velista pugliese, era perennemente vuoto. In quei mesi ci ritrovammo spessissimo a girare per Bologna a orari improbabili per cercare con urgenza qualcosa da mettere sotto i denti. Non ero abituata a pranzare e cenare fuori, e fu Elena a insegnarmi a mangiare nei ristoranti, nelle trattorie, o a fare colazione al bar. Io ero abituata a fare la spesa nei supermercati convenienti con lo zaino da campeggio (non avendo la macchina, quando erano lontani da casa mi ero attrezzata in questo modo) mentre lei comprava al bar perfino le bottiglie d’acqua. Ci innamorammo perdutamente. Dopo qualche mese, però, le cose si complicarono. Per diverse ragioni, Elena non era pronta a vivere la nostra storia allo scoperto, e io non volevo stare con qualcuno che intendesse tenermi nascosta.

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