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Francesca Marone. Le Pentite. Sarò per te veleno e cura

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Lontane nel tempo ma vicine nello spirito: sono tre le vicende di cui narra Le Pentite, sarò per te veleno e cura (Les Flâneurs Edizioni), secondo romanzo di Francesca Marone, sociologa, counselor e mediatrice familiare, che trovano casa in un luogo reale e suggestivo fulcro di metafore, l’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Federica, una studiosa dell’arte che ormai crede alle spalle buona parte della sua vita, viene chiamata inaspettatamente a svolgere delle ricerche su ciò che tra le mura dell’istituto di cura accadde in tempi remoti.

Porterà alla luce la storia della fragile Albina, ricoverata nel Settecento in questo edificio dal nome singolare, luogo che avrebbe dovuto fornire cura, garantire conforto e vicinanza lieve e rispettosa anche in assenza di una totale guarigione, un rifugio per gli Incurabili, appunto. Un conforto che alla giovanissima Albina – abbandonata in quelle stanze dal marito perché aveva iniziato a manifestare i segni di un distacco dal mondo in un ripiegamento su stessa che aveva preso la forma di un canto ossessivo – per lungo tempo viene negato.

Malamente abbandonata al suo destino, quasi sepolta viva a evitare lo scandalo dei primi segni di pazzia, presto da tutti dimenticata, la ragazza verrà presa in carico da Elisa, una Pentita: è così che vengono chiamate lì le donne già prostitute, affette da sifilide, entrate nell’ospedale per curarsi e poi mai più uscite, inglobate in un girone infernale. È a loro, ultimo scalino dell’umanità, che vengono affidate le mansioni più aberranti in quel luogo dimenticato da Dio.

Nella solitudine profonda, nella certezza di essere state in un verso o nell’altro rifiutate dal mondo, le due donne si avvicinano giorno dopo giorno: tra loro nasce una relazione delicata, salvifica. Invisa, però, al Mastrogiorgio, il guardiano prima figura di carnefice di questo romanzo, che non tollera la purezza di un sentimento diverso che va nella sua mente osteggiato, represso e punito.

Primo carnefice, si diceva: perché in questo romanzo, sotto altri nomi, Francesca Marone declina magistralmente l’idea del seviziatore, abile manipolatore padrone di corpi e menti, essere che attraversa trasversale tempi e epoche, minaccia sempre presente.

E ne fa il nucleo unificante delle altre due vicende, coinvolgendo come collante gli scritti ritrovati di Giuseppe (la cui figura è liberamente ispirata all’omonimo Moscati, medico dei poveri, che davvero operò agli Incurabili a inizio Novecento. Nel romanzo la sua figura vive invece negli anni Ottanta), irrimediabilmente minato da una depressione di cui cade vittima fino a trovare Lei, una donna che cambierà il suo destino.

Anche nella sua, come nelle altre due storie del romanzo, è il femminino che porta nuova vita e unica cura: così accade in particolar modo nella terza narrazione, nel racconto della vicenda di Federica e Maria, vittime entrambe della seduzione malata che si fa violenza fisica e verbale, priva di umanità di Armando, il Lupo. Affascinante, stratega dei giochi di seduzione, costui si appropria dapprima del corpo della più giovane che gli era stata consegnata dai parenti perché le trovasse un’occupazione (assistiamo di nuovo, circolarmente, a un abbandono come per la povera Albina lasciata in ospedale e di nuovo all’incapacità di accudire amorevolmente delle famiglie).

Più tardi, tra di loro arriverà Federica: altra età, altri percorsi di vita, che però non la proteggono. Il destino, per lei, pare lo stesso di Maria: conquistata dal Lupo, dalla sua crudeltà alternata a apparenti manifestazioni di affetto e dall’ebrezza dei giochi sessuali (chi dà piacere sa legare le mani e i piedi), anche Federica trova in lui veleno e piacere.

Non fosse che la sorte a cui sembrano predestinate entrambe subisce una svolta nel momento in cui le due vittime si avvicinano l’una all’altra – proprio come secoli prima come Albina ed Elisa – nella loro prigionia a porte aperte, ma mentale e carnale.

È nella loro unione, anche fisica, che finalmente esclude il Lupo, che trovano la forza per alzare la testa e sopravvivere, la cura al veleno.

Francesca Marone costruisce felicemente, con solida architettura, un intreccio a partitura tripla imperniato sul rischio di certi incontri, sull’eterno pericolo di poter cadere vittima di personaggi dal doppio volto, uomini il cui lato oscuro si espande senza remore su tutto e tutti, predominante.

Quelle relazioni manipolatorie, annichilenti, fanno parte della storia da sempre, suggerisce l’autrice: come nel 1763 per la nobildonna doppiamente condannata per pazzia e omosessualità, così ai giorni nostri per Federica e Maria, osteggiate nel loro desiderio di slacciarsi dalla tirannia di chi le aveva lungamente soggiogate e viversi un amore pulito.

Certe cose del passato, senza alcun legame apparente, in qualche modo finiscono per assomigliarsi, fa dire Marone a un personaggio: sono pericoli eterni, da cui ci si salva solo nella grazia riparatrice dell’umano.

E nella comprensione dell’altro, nel rispetto della persona, anche nella delicatezza: Francesca Marone sceglie di inserire nella narrazione tesa, talora di violenza quasi intollerabile, alcuni brani poetici: pause nel cammino, piccole bellezze.

Non portano firma, ma una sigla, e formano un quarto filone di narrazione: quello che tutto chiarisce, lentamente svela e andrà a chiudere da ultimo, e definitivamente, ogni cerchio.

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