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Francesco Savio anteprima. Felice chi è diverso

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Felice chi è diverso di Francesco Savio, di prossima uscita da Fernandel, ha per protagonista un libraio pendolare, come molti lavoratori di ogni settore di attività, che si alza all’alba per andare a lavorare in un’altra città. Il suo sguardo è lo sguardo di un lettore, che “legge” appunto quanto lo circonda. La sua diversità sta quindi nel modo con cui sta nel mondo, nel modo in cui vive e sente la città che abita, e sopratutto nella sua capacità di percepire in maniera profonda la bellezza che si annida nei particolari più piccoli. Mentre cammina, viaggio o lavora, elabora modi di sopravvivere, sia dal punto di vista economico sia da quello esistenziale. Per reagire al malessere che questa vita ci da cercava di concentrarsi sull’opera di Egon Schiele, sulle 12 donne sfatte e scheletrite. Pensava “al Nudo femminile seduto con braccio destro alzato, 1910. Al Nudo femminile con i capelli neri (in piedi), 1910. Al Nudo femminile con le braccia incrociate, 1910. Al Nudo femminile accovacciato, 1910. Alla Ragazza nuda seduta con le braccia sulla testa, 1911. Alla Ragazza sognata, 1911”. Quello del protagonista, che non voleva “ fare la fine di Luciano Bianciardi, fuggito troppo tardi a Rapallo, e mai tornato stabilmente a Grosseto, descritta come Kansas City nelle pagine de Il lavoro culturale, è quindi una lotta per la sopravvivenza: “Guardavo la collina e ripetevo a me stesso: a Milano non si vive, si sopravvive con l’illusione di essere più vivi”.

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Mi alzavo alle 4,55 per andare a lavorare. Ero abbastanza contento, anche se sul treno dei pendolari raramente incontravo intellettuali. Un mattino alla stazione di Rovato era salito un ragazzo che sembrava Bob Marley. Cantava barcollando. Poi si era messo a gridare: «Non sono un cliché! Non sono un cliché!» Aveva recitato una poesia. Quindi aveva vomitato sul sedile. Mi ero allontanato. Avevo cambiato carrozza. Da alcune settimane il treno regionale delle 5,55 aveva perso il suo aspetto moderno e accettabile, sembrava un convoglio risalente agli anni ottanta, con dei vecchi divanetti blu a due posti, stretti, senza bracciolo divisorio. Inoltre sotto al finestrino mancava il contenitore in metallo dove mettere le carte o altro da buttare. Per protesta veniva voglia di gettare tutto a terra, o di scrivere su un foglio «Rimettete il cestino» e di attaccare questa comunicazione di servizio alla parete; mentre la distanza dal passeggero che avevi di fronte era tale che per decidere come incrociare le gambe bisognava stipulare un patto silenzioso: se lui le allargava tu le tenevi strette, se lui accavallava a sinistra tu facevi lo stesso con la destra. Individui obliqui.

Mi sarei potuto alzare anche alle cinque del mattino, cinque minuti a certe latitudini orarie possono fare la differenza, ma avrei dovuto fare tutto di corsa. Anzi, avrei dovuto proprio correre. A volte immaginavo di farlo davvero. Di chiudere senza rumore il cancelletto grigio del giardino della casa in cui abitavamo, osservando con dispiacere i due abeti potati male che mi facevano venire in mente le donne di Egon Schiele, per poi iniziare a correre fino alla fermata della metropolitana, dosando la forza degli allunghi, perché fermarsi, in questo gioco immaginario per non perdere la metropolitana e di conseguenza il treno, non valeva. Passavo comunque venti secondi a guardare con attenzione i due abeti potati male il giorno di santa Lucia dai barbari armati di camioncino, motosega e scala elevatrice. Il dispiacere si trasformava in sgomento quando i miei occhi planavano sul ceppo del terzo abete del giardino, quello che con i suoi rami verdi e profumati era il più vicino al nostro balcone, facendo naturalmente ombra durante la stagione estiva, abbattuto nell’ipotesi che l’intero albero, o parte di esso, potesse cadere e danneggiare la casa in cui vivevamo.

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