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Gabriel García Márquez . Ci vediamo in Agosto

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Il 6 marzo del 2024 Gabriel García Márquez avrebbe compiuto novantasette anni. Un traguardo tutto sommato possibile per molti contemporanei. Nello stesso giorno, in Italia come in altri paesi del mondo, è stato pubblicato un suo romanzo postumo (Ci Vediamo In Agosto), breve, brevissimo, poco più di  cento pagine, tradotte per Mondadori da Bruno Arpaia.  Márquez ci lavorò per oltre vent’anni, tra alti e bassi e una salute mentale ballerina che giorno dopo giorno inghiottiva ricordi, pensieri, immagini, e perfino il significato delle parole. Una gara contro il tempo, dunque, durante la quale il premio Nobel immaginò cinque versioni diverse della storia, prima di gettare la spugna e concludere che quel testo doveva essere cestinato, anzi distrutta ogni sua bozza, cancellata ogni riga. Non andò così. Dopo la morte (il 17 aprile del 2014) i figli di Marquez, contro la volontà del padre – a riguardo il New York Times ha pubblicato un’intervista a Gonzalo, il più giovane dei figli, nella quale si fa riferimento proprio alla promessa tradita – trasferirono le bozze del romanzo all’Harry Ransom Center presso l’Università di Austin, in Texas.

Di cosa parla Ci vediamo in Agosto. A primo acchito, si direbbe una storia tipicamente marqueziana, intrisa di desiderio, sensualità e mistero, ma con alcune eccezioni, prima delle quali il focus, che in questo caso investe insolitamente una donna, una donna e uno strano rituale. Ogni 16 di agosto Ana Magdalena Bach  sale su una barca e raggiunge l’isoletta dei Caraibi dove è sepolta sua madre. Ana è sposata con un musicista, ma sull’isola conoscerà altri uomini e si abbandonerà ai richiami di una natura più profonda e inesplorata di se stessa. L’anarchia. Il rimpianto. La felicità nascosta. Uno spazio indefinito, sbiadito come i vuoti di memoria, i demoni della privazione contro i quali lo scrittore colombiano ha dovuto combattere negli ultimi anni della sua vita. È il solo lato intrigante, l’unico significato possibile, al di là dello sbandierato, banale e fuori sincrono inno alla libertà delle donne, che può restituire a questa triste operazione commerciale la dignità di romanzo autentico, e perpetuare la memoria di un genio condannato alla demenza: la sovrapposizione delle storie fuori e dentro la trama, il progressivo affievolirsi della ragionevolezza e del rigido protocollo familiare che conduce da una parte Ana alla fuga da sé e dall’altra il suo alter ego alla morte. Conoscendo la vicenda dolorosa della genesi non del romanzo ma della “ipotesi” di romanzo poi rinnegata con forza dallo stesso Gabo, avevo deciso di non lasciarmi tentare dal facile richiamo dell’acquisto. Ma ho ceduto, sbagliando.

Angelo Cennamo

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