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Gianfranco Di Fiore. L’amore inutile

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Due voci che si alternano – lei, lui, li chiameremo così, perché altro non sono che pronomi, singolari, tranne quell’unica volta, il giorno saturo di luce perlata in cui si avvicinarono e lui vide i suoi occhi color del mare, nell’albergo di famiglia, durante un matrimonio a cui lei non avrebbe voluto partecipare. Lui quella volta non ebbe il coraggio di parlarle, si limitò a chiedere un recapito al barman dell’albergo, dovettero passare alcuni mesi prima che si decidesse a scriverle.

Due punti di vista che si alternano ciclicamente, rincorrendosi tra le parole, sfidandosi a colpi di brusche interruzioni, sfruttando i silenzi che intercorrono tra una lettera e una chiamata come mosse di una partita a scacchi maledetta. L’amore, qui, concepito nella sua essenza più instabile e psicotica.

Un dialogo che è anche un continuo procrastinare il momento, l’atto dell’incontro, l’inevitabile conseguenza che porterebbe tutto sul piano materiale e forse, proprio a causa di questa transizione, ridurlo da percezione estatica a mera formalità carnale, il soddisfacimento becero di un bisogno destinato a esaurirsi nel tempo di un amplesso.

Ecco quindi che ritorna costante una domanda, il mantra alla base, la colonna vertebrale di una struttura narrativa che scorre come un fiume privo di argini, esondando da una sponda all’altra: “Ci si può innamorare di una voce?”.

Si interrogano i protagonisti, di conseguenza anche il lettore e da questa impellenza alla risposta prende vita un horror vacui sincopato, raffiche di gesti e azioni dettate dal bisogno di soddisfare una mancanza, sadicamente martellanti, voyeuristicamente perturbanti in quell’insistere morbosamente sul dettaglio, sulla secrezione, sulla reazione di un corpo (lei) che ribolle nel desiderio e per questo continuamente sottoposto a uno sforzo fisico che trova pace solo nella compulsione. Lei deve smacchiare, ogni cosa, in ogni posto, lei deve sfinirsi di fatica, scrostando la sporcizia, riportando lucore sulle superfici seppellite dal lerciume, lei che non può ripulirsi ne mostrarsi si limita a pulire tutto il resto, fino a cedere stremata, nell’attesa di risentirlo. Martirizzarsi nello sforzo fisico le appare come l’unica redenzione possibile, la penitenza per aver ceduto, una volta di troppo, al richiamo dell’estetica perfetta.

Lei gli chiedeva sempre se era ancora possibile innamorarsi in questo mondo egoista e violento, se una donna poteva innamorarsi di una voce o di certe frasi scritte; ogni volta che parlavano al telefono gli ripeteva che secondo lei l’amore poteva non bastare, diceva che i suoi occhi color mare – ammirati una sola volta, mentre camminava sui bordi curvi della piscina – non erano la verità, non era più lei la ragazza dalla pelle di grano che osservava muta la spiaggia. Lei ora voleva morire. E forse era già morta.

Dall’altra parte invece c’è lui. Succube, sottomesso, voce di conforto e sostegno, trascorre giorni, a volte settimane, in attesa di poter adempiere nuovamente al suo pegno di soccorso. Lui è il dispensatore di pietas, suona e canta canzoni scritte in paesi lontani imbracciando la sua chitarra nera, la sera, sul ciglio del balcone. Il suo è un amore di rinuncia, santificato nella privazione.

Non ricordava la sua ultima telefonata. C’erano dei giorni in cui dimenticava anche la voce di lei. Perdeva peso, sudava, girava a piedi nudi nella casa e il calore lo affaticava, scivolava sulle piastrelle, sollevava la cornetta del telefono che restava muto, prendeva tra le mani il plastico della stanza e lo appoggiava sulle ginocchia, come un neonato: l’osservava, mancavano dei dettagli, sparivano le forme giuste, il buio era finito lì dentro e lui lo rischiarava con la torcia.

Cavaliere romantico che sembra provenire da un mondo compiuto, consapevole che la sua vita non può limitarsi a una voce di conforto, lui proietta diapositive sulle superfici dei palazzi e costruisce un plastico della sua camera che aggiorna con accortezza, quasi a volerne certificare l’esistenza. Trascorre le giornate scattando foto alle persone e ai luoghi che circondano il suo palazzone grigio, anonimo, eretto al centro di una periferia altrettanto grigia, altrettanto anonima. Sogna una mostra personale pur consapevole che, superati i trent’anni, sfondare nel mondo artistico con foto di caseggiati popolari non sia cosa facile, per l’affermazione occorre altro: un sacrificio, un viaggio rischioso in una terra di conflitto, nulla che non sia doloroso quanto quel suo stillicidio quotidiano. Il suo è un cuore che soffre continuamente, per i vuoti tra una chiamata e l’altra, per le promesse impossibili da mantenere, l’attenzione incostante di lei è un cancro che si ciba di ogni prospettiva, un ultimo tango a Parigi che si consuma nelle parole.

I loro dialoghi sono intrisi di un lirismo che a tratti può ricordare la pomposità di una tragedia greca per poi scendere a picco nel gorgo di una hotline e in questo continuo gioco di contrasti si evince una maestosa capacità dell’autore nel riuscire a tenere le redini di una storia così satura di immagini e descrizioni che crescono al ritmo di un respiro sempre più sincopato fino alle ultime, rivelatorie, pagine.

Non avrebbe riavuto indietro quegli anni, passati ad aspettare lo squillo di un telefono, lui e lei erano già morti mille volte, anime tragiche di uno spettacolo assente, eppure da lì a qualche mese avrebbe cancellato ogni traccia di quella favola nera. Nel parco, accanto a un’aiuola, fra la terra e le pozze d’acqua scura, alcuni giovani tiravano dei calci a un pallone sgonfio. Il più grande se ne stava seduto su una panchina, beveva da una lattina e fumava. Si accontentava di esser lì in quel momento, vivo, nella sua piccola città.

Indispensabile soffermarsi, ancora una volta di più, sulla prosa dell’autore: un’estetica – come afferma lui stesso in una recente intervista -, che si fonda su una radice profondamente realistica innervata, quasi per necessità, in un terreno iper realistico. In questo calarsi nella posizione più scomoda, obliqua, spesso rischiosa, sdoppiandosi per essere contemporaneamente nella psiche di due personaggi tanto diversi seppur così profondamente legati dalle proprie pulsioni, in quel continuo procrastinare, analizzare, sviscerare fino a giungere al tessuto più fragile e pulsante, si percepisce la volontà di una penna audace nel voler raccontare una storia che, adagiandosi su un registro più canonico, sarebbe potuta facilmente scivolare nell’ennesimo, inutile, pistolotto amoroso.

Di inutile, invece, nel dialogo anacronistico imbastito da Gianfranco Di Fiore c’è ben poco, semmai un’intrigante sovrabbondanza che a tratti può disorientare ma che non smette di ammaliare.

Ci troviamo di fronte a un romanzo coraggioso e passionale che non sente il bisogno di spiegarsi, né di arrivare a una verità assoluta, bensì di mostrarci e indagare una versione alternativa e spietata di un eros cannibale, mai sazio di parole, destabilizzante e ammaliante nella sua vorace unicità.

Stefano Bonazzi

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L’amore inutile

Gianfranco Di Fiore

Wojtek

16,00 euro — 208 pagine

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