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Gianluca Barbera inedito. Il destino del romanzo d’avventura. Il Premio Emilio Salgari e “Magellano e il tesoro delle Molucche”, tra Stevenson, Salgari e London

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Invitato a un festival di letteratura, informo una delle organizzatrici, Raffaella, della mia fresca vittoria del Premio Emilio Salgari 2022 (ex equo con Luca di Fulvio, campione di vendite all’estero, e Orso Tosco, giovane e brillante penna).

Quello che mi sento rispondere mi riempie di soddisfazione perché corrisponde in pieno ai miei sentimenti: “Caspita! Complimenti!! Sai che ho l’intera collezione salgariana, della quale ho già letto 53 romanzi? Per me quel premio è prestigiosissimo! Quasi un Nobel! Giro subito la notizia alla tua intervistatrice. Grazie!”.

Lo ammetto, non c’è riconoscimento al quale avrei ambito maggiormente. Perché Salgari per me dice tutto. È sinonimo di storie portentose, di personaggi indimenticabili, di infanzia, di “pulite avventure all’aria aperta”, avrebbe detto Stevenson. Nessun altro premio avrebbe potuto rendermi altrettanto felice. Lo ritengo non soltanto il coronamento del mio percorso di scrittore, ma addirittura un segno del destino, una felice congiunzione astrale.

Il premio l’ho vinto con “Mediterraneo” (Solferino), un romanzo molto complesso, me ne rendo conto ogni volta che lo racconto a qualcuno (qualche giorno fa a mio suocero, che ammetteva di non aver capito un paio di cosette: spero di aver dissipato i suoi dubbi!), ma così pieno di avventure del corpo e della mente da traboccarne letteralmente. E non è un caso: questo romanzo e questa vittoria arrivano al termine di un percorso, se permettete, limpidissimo e coerente, durante il quale non ho fatto altro che avere davanti agli occhi autori come Stevenson, Salgari, London, Conrad, Melville, Poe, Defoe, Dahl e perfino J.K. Rowling e il suo Harry Potter; ma anche autori italiani come Evangelisti, Buticchi, Marina Marazza, Matteo Strukul e il raffinatissimo Michele Mari, nel quale il mio “Mediterraneo” ha avuto un chiaro modello, insieme a Salgari, Stevenson e Borges (che strano trio!).

Mi è stato chiesto da un’intervistatrice se il romanzo di avventura sia ancora vitale e se abbia un futuro.

Ma certo” ho risposto, “a patto che sappia reggere la sfida con il cinema e le serie Tv”. Confesso di avere molti amici scrittori che ormai passano più tempo a guardare serie Tv che a leggere romanzi. E questo è un guaio… O forse no?

Comunque la sfida è aperta. E cosa può fare la letteratura, non solo quella di genere, per vincere o comunque reggere il peso di una tale sfida?

Di risposte possono essercene molte. Una è senz’altro questa: seguire, anche a due secoli di distanza, la lezione di Robert Louis Stevenson, l’autore di quello che per me resta il romanzo perfetto: L’isola del tesoro.

A rendere indimenticabile un romanzo, a farne un classico, scriveva Stevenson, è la sua capacità di suscitare incanto, di mettere in scena situazioni memorabili, che rimangano impresse nella mente del lettore, capaci di ricondurci all’infanzia, a ciò che amavamo quando eravamo ragazzini, alle “pulite avventure all’aria aperta”, appunto. “Robinson Crusoe che indietreggia dinanzi alle orme dei piedi, Achille che grida contro i Troiani, Ulisse che piega il grande arco. Questi sono momenti tutti culminanti nella leggenda e ognuno di essi ci si imprime nell’occhio della mente per sempre. Possiamo dimenticare le parole, per quanto belle, possiamo dimenticare il commento dell’autore, per quanto geniale; ma queste scene che fanno epoca, che danno l’ultimo tocco di verità al racconto e colmano la nostra capacità di partecipazione al loro pathos, noi le adottiamo così completamente nell’intimo del nostro spirito, che né il tempo né il corso delle cose può cancellarne o indebolirne l’impressione. Una cosa è osservare e anatomizzare con logica tagliente le complicazioni della vita e dello spirito umano, tutt’altra cosa è dar loro corpo e sangue nella storia di Aiace o di Amleto. Nel primo caso si ha della letteratura, ma nel secondo c’è anche dell’arte”. Ecco spiegata la ragione, continua Stevenson, per cui opere che non eccellono per stile o per caratterizzazione dei personaggi sono però capaci di durare nel tempo proiettandoci in avventure sognate e appagando desideri e bisogni senza nome della nostra giovinezza, come nel caso di Robinson Crusoe, o dei romanzi di Dumas (“quanto ai primi capitoli del Conte di Montecristo, non credo esista un altro volume nel quale si possa respirare la stessa inconfondibile atmosfera da romanzo”), o come accade per “Le mille e una notte”, “nelle quali cerchereste invano un interesse morale o intellettuale; nessun volto e nessuna voce umana vi salutano tra la folla legnosa di Re e di geni, di stregoni e di mendicanti: vi troverete solo l’avventura e il divertimento nei termini più elementari”. E tutto questo mentre romanzi assai meglio scritti e pieni di intelligenti riflessioni, di accurate descrizioni e di personaggi finemente tratteggiati, finiscono per giacere impolverati tra gli scaffali.

Non sono dunque i personaggi in sé, dei quali il lettore si innamora, con i quali si identifica, ma ciò che fanno, ciò che accade loro. È la vicenda narrata a coinvolgerci (“qualche situazione che abbiamo a lungo accarezzato con l’immaginazione viene realizzata nel racconto con particolari seducenti e appropriati; allora dimentichiamo i personaggi e ci immergiamo nel racconto, facciamo un bagno di fresca esperienza”). Ci sono luoghi, che sembrano fatti apposta per fungere da teatro di eventi memorabili, per vedere realizzati i nostri sogni di giovinezza; luoghi che aspettano la loro ora, la loro leggenda (“qui il destino mi aspetta”, “siedo lì, in quel luogo, tra quelle mura coperte di edera, dietro a quelle imposte verdi, sulla panca di quella vecchia osteria dove qualche avventura di certo sta covando”).

Quando il lettore si identifica con il protagonista, significa che la scena descritta è una scena riuscita. Ma attenzione, perché un eccesso di dettagli ci allontana dai personaggi, ce li fa sentire distanti. Leggendo un romanzo il lettore deve non solo divertirsi, ma anche avvertire che lo scrittore si è divertito mentre lo scriveva. Quando una storia soddisfa il bisogno di avventura del lettore, allora quella storia funziona. Lo stile conta meno dell’invenzione (una lezione anti-contemporanea, direi, non necessariamente da seguire alla lettera, sia beninteso, ma secondo le proprie inclinazioni). Quando ci si immerge in un libro, esso funziona solo se ne veniamo immediatamente rapiti. Tuttavia non basta parlare di tesori o ideare intrecci, avverte Stevenson: “anche il recupero di un tesoro può essere reso in modo pesante”; “la cassa piena di cose preziose nell’‘Isola misteriosa’ di Verne ne è un esempio”. Invece “la piccola storia di un marinaio naufragato, senza neanche la decima parte dello stile né la millesima parte della sapienza” di altri libri pieni di intelligenza e di bello stile “va avanti di edizione in edizione”.

Sempre Stevenson riferisce un gustoso aneddoto: aveva un amico fabbro che non sapeva né leggere né scrivere. Un giorno, sentendo leggere un capitolo di “Robinson Crusoe”, se ne appassionò al punto da uscire trasformato da quell’esperienza, avendo scoperto che vi erano “sogni a occhi aperti che si potevano comperare col denaro e dei quali si poteva godere a piacimento”. In seguito l’uomo imparò a leggere in più di una lingua e diventò un divoratore di libri. “Gli inglesi del giorno d’oggi, invece – concludeva il grande scrittore scozzese – serbano la loro ammirazione per il tintinnio dei cucchiaini e per gli accenti del curato”, considerando “intelligente scrivere un racconto senza nessunissimo intreccio, o al massimo con un intreccio molto stupido”. Sembra che parli in qualche misura dei giorni nostri, o no?

Insomma, secondo il grande scrittore scozzese si tratterebbe di risvegliare in noi la passione per una certa epica, che può essere anche quella degli “umili” e delle piccole cose, non necessariamente quella dei grandi avvenimenti e dei sommi personaggi.

Forse Stevenson esagera, preso com’è dal suo consueto e irrefrenabile entusiasmo. E, tuttavia, come dargli completamente torto?

Dal canto mio, spero di essere riuscito a fare qualcosa di simile con il mio nuovo romanzo “Magellano e il tesoro delle Molucche”, da pochi giorni in libreria per Rizzoli; un romanzo per ragazzi, certo, ma appunto alla maniera di Stevenson e Salgari, se mi è consentito dirlo senza che debba arrossire.

A me pare che ci siano storie, luoghi e personaggi che aspettano solo di essere raccontati, che attendono la loro ora, come direbbero per l’appunto Stevenson e Salgari. Magellano è uno di questi. Raccontando la sua avventura e infarcendola di invenzioni della fantasia ho liberato tutto il mio potenziale interiore, come in un romanzo per adulti non mi sarei mai azzardato a fare.

Da sempre sognavo di ritrovarmi in compagnia degli scrittori più amati della mia infanzia. Ora ci sono? Al lettore la parola, come sempre.

Una cosa è sicura: in questi anni ho viaggiato molto, poiché come diceva Salgari: scrivere è come viaggiare, ma senza la seccatura dei bagagli.

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