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Giorgio Ghiotti. Ipotesi del vero

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È un libro corposo Ipotesi del vero (pagg. 168, 15.00), licenziato da Giorgio Ghiotti per LiberAria editrice nel trascorso 2023. Forse leggermente troppo corposo, anche se tendenzialmente in linea con quanto l’editoria sta ultimamente chiedendo e proponendo in poesia (per intenderci, si è passati rapidamente da scheletriche plaquette a sillogi ipertrofiche). Resta comunque un impegno più che interessante leggere quanto il giovane scrittore romano, nato nel 1994, raccoglie in questa sua ultima prova poetica.

E subito ci troviamo davanti a non poter parlare precisamente di una sola prova. Infatti le raccolte che trovano ospitalità sotto il titolo di Ipotesi del vero sarebbero due. La prima, composta da dieci capitoli, che dona il titolo al libro nel suo complesso; la seconda, L’andare e l’addio, si offre come un poemetto coeso in cinquantuno stanze.

In entrambe, è presente una forte cantabilità dei versi, ricchi di assonanze e semirime, quasi a dichiarare immediatamente le ascendenze poetiche, per altro molto articolate, dell’autore.

La matrice pare essere quella di Umberto Saba e Vittorio Sereni, ma la direzione è poi quella che da Sandro Penna porta a Patrizia Cavalli e alle prime prove di Mariagiorgia Ulbar.

Ci sono prestiti da e riconoscimenti verso alcuni di questi autori, così come verso altri a volte dichiarati apertamente, altre citati in modo “occultato” all’interno dei testi. A Cavalli è dedicata una poesia, di un’altra è il soggetto centrale; a Biancamaria Frabotta è dedicata una sezione del primo libro, mentre una sua citazione apre il secondo; sempre una citazione viene tratta da Giacomo Palmery per un’altra sezione del primo libro…

Questi e altri autori sono citati nei ringraziamenti a prova di un lavoro non tanto alla ricerca di una “sintonia di voce”, quanto carico di una “amicalità diffusa”, di una vicinanza con essi che non vuole tenersi dentro il solo raggio del letterario.

E quindi, sì, appaiono i maestri, che però Ghiotti sente e vive innanzitutto come amici, con cui parlare: tramite i testi, tramite le dediche. Amici di cui rinnovare il ricordo e l’esperienza condivisa di un momento. Dopo viene la loro voce, da cui non si può prescindere, da cui l’autore non prescinde, perpetrando una linea poetica e traghettandola nel contemporaneo.

Diciamo che è comunque la scuola romana, qualsiasi cosa si voglia indicare con ciò, ad avere preminenza nelle citazioni più o meno esplicite contenute in Ipotesi dal vero.

Lo si nota anche nella struttura dei testi, tesi a una limpidezza e una trasparenza imperfetta. Spesso infatti le composizioni si scontrano con una oscurità del verso di cui si è fatta sempre maggiore esperienza nel procedere del Novecento. La cantabilità di cui si fa portatore il lavoro di Ghiotti stempera questo portato, ma non lo cancella. Se la “forma” dei testi in tutto Ipotesi del vero insegue il nitore, la pulizia, non per questo riesce a rivelare (né lo vuole) tutto quello che c’è al di là della superficie. La sua classicità non dà luogo a un cantare semplice. E questo traghetta il lavoro di Ghiotti nella nostra piena contemporaneità, senza inficiare la richiesta paragoethiana con cui si apre la raccolta.

Parlando della raccolta. Se, come dice Carmelo Princiotta nella postfazione, “Il primo è un libro dei ritorni, possibili e impossibili: quello del poeta a Roma e quello dei morti”, con un contenuto che appare maggiormente eterogeneo, il secondo si dimostra più compatto nella sua conformazione di poemetto. Qui la voce del poeta, che non sa pensarsi «fuori dal presente, un presente/a uso storico», appare meno cronachistica, meno aneddotica, parla del suo vissuto, di cosa esso contiene. Lo fa sempre in maniera dialogica, indirizzando il racconto verso un bambino, il «piccolo Pietro De Marco» cui è dedicata la composizione e che viene poi ringraziato nelle note.

Se possibile L’andare e l’addio accentua il tono melanconico già presente nella prima parte della raccolta. Lo fa attraverso un andamento meno frastagliato, dove lo scorrere del tempo, la perdita e lo scialo che se ne fa in gioventù («la corsa sviata del tempo»), viene a essere tematizzato verso una idea di fragilità dell’uomo («penso a quando ci inizieranno/a fissare i nostri vent’anni/da una distanza ragguardevole/e non mi sento affatto sicuro»).

Il poemetto è un lascito verso chi sarà dopo di noi, chi andrà avanti nel solco della vita, non più un dialogo con chi è già stato. In questo ha ragione Princiotta quando indica i due libri che compongono la raccolta come ripetizione dello stesso concetto. La prima volta nel cercare un affido alle proprie parole attraverso il rapporto con chi ci ha preceduto, la seconda dandole invece in affido a chi ci seguirà, ma facendo in modo. “non si senta un giorno tradito da ciò che gli è stato consegnato”.

Sergio Rotino

 

 

 

#

 

Troppo poco allenato il piede

a solcare per intero la distanza

che spariglia le carte e ci trasforma

in pavidi spettri del nulla,

troppo elementare credere

al traslucido del cuore, al ritorno

anonimo in forma di sogno.

Mi toccherà d’indovinare la tua voce

sirena arborea, stellata figura

nel primo canto estivo degli uccelli,

di nido in nido strappare la promessa,

dettare con parole nuove la vita

perché non si richiuda su di noi

come un’ingannevole estranea

la corsa sviata del tempo.

 

 

 

Bagna i fiori e aspettami

prima che passino i volti,

prima che sciolti gli indugi

scoloriscano i giorni –

i notturni incontri – i cortei

al mattino – i fumosi ideali che sei

stato un tempo – quando l’alito avevi

di santa rabbiosa gioventù – di vino

dolce – ingombre le ore

di slogan da tirarci su mondi –

bruciare momenti – calpestare

tra fiori azzurrini tutti

e cinque i continenti.

 

 

3.

Così esiguo il tempo che ti lega

ai misteriosi dintorni del caso

da un lato, e di qua a noi.

 

 

Nel primo giorno del mese

che chiude l’anno sei giunto,

scontata somiglianza col piccolo

re di stracci, tu pure nato sotto

una buona stella, viandanza

parola benigna te la portò in dono

una cui il caso affidò destino

di stella in Gemelli.

 

 

 

15.

E poi penso a un futuro

che si lasci guardare da vicino,

pranzi e feste “con chi vuoi tu”,

appartamenti imprestati fino

a mezzanotte, il bacio

del paradiso troppo atteso,

penso a quando ci inizieranno

a fissare i nostri vent’anni

da una distanza ragguardevole

e non mi sento affatto al sicuro;

a quel che ci manca o potrebbe,

lasciato indietro per restarci

fedeli, malassortiti, figli

mai avuti, divenuto forse

artista ognuno a suo modo

per supplire alla vita, all’assenza

di una vita, “altrimenti a cosa serve

tutta l’arte?” scriveva Saba nel ‘57

in una lettera recapitata in via dell’Oca.

 

 

 

40.

Io vado da dove tu vieni,

dove bambini gorgogliano

al fondo di fontane

come specchi parlanti di brame,

e i sogni sono camicie che non puoi

lavare. Ricami di giorni tristi

asciugheranno all’ombra della casa

tra altre case, tra altri umani;

come stendardi e bandiere al vento

agiteranno innumeri i giorni felici

sul mio filo infiorato di ricordi.

 

 

 

Fine d’anno, saturo il momento

di feste che nessuno ha mai richiesto,

un bilancio dovrebbe tener conto

di questo telefono che spalanca

improvviso a piacimento vuoti

e dà un tremore, una sorpresa tale,

un imbarazzo come se si è nudi.

L’amico che da almeno un paio d’anni

vorrei sentir gridare il suo saluto

è irraggiungibile da qui all’eterno;

e un’altra amica amata mi ha sottratto

l’anno che finalmente adesso chiude.

Cosa dovrei dire? Quali bilanci

se non le foto della loro assenza

sulla mensola nuova?

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