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Giovanni Cocco inedito. Nei Sanatori Alpini sulle tracce di Thomas Mann e Jean Vigo

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Sanatori e tbc: la storia

Se mai qualcuno dovesse decidersi, un giorno, a stilare un repertorio dei luoghi reali che più hanno condizionato e trasformato la vita artistica e l’immaginario stesso del secolo scorso, i sanatori sorti lungo l’arco alpino tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento occuperebbero senz’altro un posto di riguardo.

Gli edifici realizzati per la cura della tubercolosi hanno infatti caratterizzato un’epoca e segnato profondamente la vita intellettuale del periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, Belle Epoque e non solo: basti pensare a tutti coloro – celebri e meno celebri – che sono passati (con alterne fortune) attraverso l’esperienza della malattia e del sanatorio.

In ordine sparso e limitatamente al periodo preso in esame: il regista francese Jean Vigo morto di tbc a soli ventinove anni nel 1934 durante le riprese del suo capolavoro, L’Atalante; gli scrittori George Orwell (1950), Franz Kafka (1924), Anton Cechov (1904), William Somerset Maugham (1965), Thomas Wolfe (1938), Kathleen Mansfield (1923); i poeti Guido Gozzano (1916) e Sergio Corazzini (1907); il drammaturgo Edmond Rostand (1918, a cui si deve il personaggio di Cyrano di Bergerac), il musicista Chopin (1849), il pittore Amedeo Modigliani (1920). Ma anche il matematico austriaco Erwin Schrödinger (Nobel per la Fisica) morto nel 1961, l’attrice Vivian Leigh (1967, la Rossella O’Hara di Via col vento), la pensatrice e attivista francese Simone Weil (1943), l’inventore francese Louis Braille (1852), l’economista francese Frédéric Bastiat (1850).

Il male del secolo (scorso) fu forse la malattia più democratica della storia, visto che non risparmiò nemmeno reali, santi e potenti: il re Alfonso XII di Borbone morì di tubercolosi nel 1885, la mistica francese Thérèse Françoise Marie Martin (più nota come Santa Teresa di Lisieux) nel 1897, mentre l’ex first lady americana Eleanor Roosevelt (moglie del “padre” del New Deal) nel 1962.

Anche in questo campo non mancano i “parenti di”: è il caso di Matilde, la figlia prediletta di Manzoni, morta di tisi nel 1856 o di Johanne Sophie, sorella del pittore norvegese Edward Munch (quello dell’Urlo), scomparsa nel 1877.

Prima di loro, quando la malattia non era ancora stata ben definita e “canonizzata”, l’elenco dei morti per sospetta tubercolosi vanta nomi eccellenti come quelli dei poeti Novalis, Keats e Alfred Louis Charles de Musset, dei drammaturghi Moliere e Schiller, degli scrittori Laurence Sterne (suo il celebre Tristram Shandy) e Emily Bronte; la lista comprende eminenti scienziati e pensatori come Pascal, Spinoza, Thoreau e Celsius; musicisti come Pergolesi; eruditi come Francesco Algarotti e politici come James Monroe (quello della famosa Dottrina); ma anche un rivoluzionario come Simone Bolivar e, primo fra i primi, il pittore Antonello da Messina. Scampano miracolosamente al “mal sottile”, ma ne sono comunque influenzati per il resto della vita, personaggi come Goethe, Albert Camus, David Herbert Lawrence; più tardi anche Charles Bukowsky, Dashiell Hammett e il filosofo Gilles Deleuze.

Quanto alle contaminazioni artistiche generate dal connubio malattia-sanatorio l’elenco sarebbe infinito ma vale almeno la pena ricordarne i momenti principali. Per la letteratura risultano imprescindibili La Signora delle camelie (1848) di Dumas figlio, I fratelli Karamazov (1879) di Dostoevskij (che termina con la scena straziante del seppellimento del giovanissimo Iliuscia, morto di tubercolosi), La Montagna Incantata (1924) di Thomas Mann e la celebre A Silvia di Leopardi; alcuni racconti di Maupassant ambientati in Costa Azzurra, ma anche certi brani tratti da opere di Verga, Zola e Tolstoj; in tempi più recenti in Italia, Diceria dell’untore (1981) di Gesualdo Bufalino riattualizzò il tema, collocando la vicenda narrata in un sanatorio siciliano.

Nella musica sono rimasti celebri i personaggi di Violetta ne La Traviata di Verdi (1853) e la sublime Mimì di Puccini (La Bohème è del 1896, l’aria “Che gelida manina” tra le più conosciute al mondo).

Il cinema, dal canto suo, ha di recente prodotto sul tema lo splendido musical Moulin Rouge del regista Baz Luhrmann (2001), che si rifà in parte al soggetto originale di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème, 1851) da cui presero spunto anche i librettisti di Puccini per la Bohème (Illica e Giacosa, una sorta di duo Mogol-Battisti del melodramma). Ma anche una delle poche (e sottovalutate) prove da regista di Nino Manfredi: Per grazia ricevuta (1971), Palma d’oro a Cannes.

I luoghi (1): Davos

All’indomani del World Economic Forum di Davos, spinto da una curiosità diventata ormai morbosa e infastidito dal fatto che in Italia radio e Tv continuassero a pronunciare scorrettamente il nome della celebre località del Canton Grigioni (con l’accento sulla “o” anziché sulla “a”), ho deciso di partire.

La curiosità nei confronti dei sanatori alpini ha infatti fatto parte delle mie ossessioni fin da ragazzino, quando mi era capitato di ascoltare di sfuggita – e spesso di frodo – le chiacchiere degli adulti circa le sorti di un qualche lontano parente ricoverato nel presidio ospedaliero di Sondalo, in Valtellina.

Le prime letture, la fascinazione per le sorti di numerosi artisti del secolo passato – tutti in qualche modo sfiorati dal “mal sottile” e costretti quindi a frequentare i sanatori alpini -, la spasmodica ricerca di un luogo in cui collocare un nuovo romanzo, avevano generato il resto.

Adesso si trattava di andare a verificare con i miei occhi se quello che avevo immaginato tra le pagine della Montagna Incantata trovasse riscontri nella realtà e se il luogo che aveva ispirato il Berghof Hotel immaginato da Mann, il sanatorio alpino in cui si svolgono le vicende dei cugini Castorp, di Madame Chauchat e le discussioni tra l’illuminista Settembrini e il gesuita Naphta, fosse davvero all’altezza della fama.

Tre ore di viaggio in territorio svizzero lungo la A2 e la A13, con due soste a Bellinzona e Splugen, e l’impatto con Davos è subito spiazzante: una comune, ordinaria, normalissima cittadina turistica svizzera di media grandezza a 1500 sul livello del mare; dotata di alberghi, Spa, impianti di risalita e attrezzature per gli amanti dello sport, Davos rassomiglia da vicino a una Saint Moritz in tono minore e, fatta eccezione per il Centro Congressi alle porte della cittadina, non ha davvero nulla di speciale per chi non sia appassionato di sport invernali.

Elementi in grado di collegarmi con le suggestioni letterarie? Le due stazioni ferroviarie di Davos-Dorf e Davos-Platz, le stesse in cui Hans Castorp transita prima di raggiungere il sanatorio.

Alle 17 del pomeriggio tutti gli uffici sono chiusi ed è difficile trovare negozi aperti. Mi guardo attorno, cercando di scorgere indicazioni sul sanatorio: finalmente, dopo aver raggiunto Davos Platz, intravedo una viuzza laterale che porta alla funicolare.

C’è tempo per l’ultima corsa della giornata verso lo Shatzalp: venti minuti di salita vertiginosa a bordo di una carrozza blu a quattro scomparti fino ad arrivare a 1861 metri dove, ad accogliere l’ignaro visitatore, c’è un romantico locale chiamato Shatzalp Restaurant; una struttura in legno, il tetto con le caratteristiche tegole di ardesia, tavolini e sedie rossi all’aperto con tanto di lampade accese.

La sagoma dell’ex sanatorio che ispirò Mann (oggi Berghotel Schatzalp, l’equivalente di un quattro stelle italiano) sorge di fronte. Un lungo portico di legno smaltato di bianco e una veranda introducono all’Hotel vero e proprio, in cui l’atmosfera da Belle Époque è ancora viva e le targhe metalliche riportano alcuni celebri brani del romanzo.

L’edificio – una imponente facciata bianca abbellita da profili rossi – è semplice, e si sviluppa su quattro livelli: le camere dei piani superiori sfruttano le ampie terrazze dell’ex sanatorio. Al piano terra una sala da pranzo in stile Liberty, un ampio foyer, la zona riservata al piano-bar, il ristorante. Davanti un ampio parco col panorama mozzafiato che dà verso le cime innevate di Pischahorn, Jakobshorn e Rinerhorn Hoch Ducan: boschi e prati, foreste di pini e sempreverdi, con le propaggini di Davos sullo sfondo. 

Accanto all’hotel sorge un importante giardino botanico, lungo il fianco ovest lo Chalet e la villa, poco più in alto il parco (da cui parte il secondo tratto della funicolare che porta fino allo Strelapass, a 2352 metri di altitudine), la Thomas Mann Platz e il Thomas Mann Weg, quello in cui Madame Chauchat e Hans Castorp passeggiavano e discutevano osservando gli altri pazienti.

I luoghi (2): Sondalo

Da una parte il Parco nazionale dello Stelvio, dall’altra la valle superiore dell’Adda, tutt’intorno le meravigliose vette innevate del Sasso Grande, le Cime Redasco, il Corno di Boero e, non lontane, rinomate località turistiche come Bormio e Livigno.

A mezzo secolo di distanza dalla sua realizzazione (i lavori iniziati nel 1932 per volontà dell’Istituto Nazionale Fascista Previdenza Sociale – fautore dell’assicurazione antitubercolare obbligatoria del 1927 – terminarono nel 1939, nda), l’impatto scenografico dell’ex sanatorio valtellinese di Sondalo lascia ancora esterrefatti già a qualche chilometro di distanza, non appena, lungo la statale dello Stelvio, appena dopo Grosio, è possibile scorgere il profilo di quello che per decenni è stato il più importante sanatorio dell’Europa continentale.

Pensato al termine della Prima guerra mondiale nell’ottica di contenimento della tubercolosi (ma inaugurato solo nel 1945 quando, per uno strano contrappasso, la domanda sanitaria per cui era stato ideato cominciava a venire meno), e realizzato per volontà di Eugenio Morelli, insigne tisiologo valtellinese trapiantato a Roma, in origine l’edificio costituiva un complesso del tutto autosufficiente, una vera e propria cittadella-acropoli incastonata nello sfavillante scenario alpino e immerso in un’infinita distesa di campi coltivati a cereali e boschi di abeti e frassini.

Completamente esposto a sud per sfruttare al meglio l’irradiazione solare, e realizzato a ridosso dell’abitato di Sondalo (un borgo di quattromila anime) il Villaggio Morelli – come fu ribattezzato a partire dal secondo dopoguerra – rimase per decenni un unicum, essendo un lontanissimo parente dei sanatori liberty di fine Ottocento, concepiti come alberghi esclusivi destinati a soli pazienti abbienti.

Dell’originaria e faraonica struttura (capace di ospitare migliaia di persone tra pazienti, personale paramedico e inservienti) oggi rimane ben poco: l’attuale presidio ospedaliero, infatti, occupa solo un quinto delle aree realizzate e osservando gli otto padiglioni-tipo, il padiglione chirurgico e quello amministrativo, inseriti in un’area di venticinquemila metri quadri e collegati da una rete stradale interna di quindici chilometri, si ha la sensazione di essere di fronte a una cattedrale nel deserto.

Perché il presidio ospedaliero di Sondalo, considerato fino agli anni Ottanta del secolo scorso uno dei più avanzati centri medici europei nella cura delle malattie polmonari, ha ospitato, nel solo periodo compreso tra il 1946 e il 1970, più di sessantamila degenti.

Quello che rimane, però, è un vero e proprio gioiello architettonico ispirato ai principi del Razionalismo e da una lungimiranza progettuale che, oltre ai padiglioni, prevedeva anche apparati tecnici, strutture di approvvigionamento energetico (La cittadella dei Servizi), zone di svago. Ancora oggi il disegno complessivo – che prevedeva elementi come il parco, le strade, i viali alberati, i muraglioni, i ponti, le arcate, i viadotti, una piazza, una chiesa, la stazione di polizia, i bar, il ristorante, il cinema, il teatro, le piscine, i campi da tennis, una emittente radiofonica interna; ma anche lavanderie, cucine, modernissimi sistemi elettrici e idrici, fognature, un sistema di depurazione interno, teleferiche, ascensori, montacarichi – è sbalorditivo perché risponde a criteri di efficienza incomprensibili con gli occhi di oggi.

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