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La parte di Malvasia. Intervista a Gilda Policastro

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La parte di Malvasia è l’ultimo romanzo di Gilda Policastro, pubblicato nel 2021 da La Nave di Teseo edizioni. Il romanzo è un contorno di soggetti che si snoda intorno alla morte, al godimento mortifero della pulsione sessuale, è romanzo dell’oltraggio, dell’andare oltre il genere e superarlo nella mescolanza dei gradi di focalizzazione. Sebbene ci sia una morta, e più di una morte, il tragitto polifonico che percorriamo mette in scena apparizioni e apparenze. Un lavoro sul desiderio e sul vuoto della Cosa materna. È un viaggio nell’interazione e dell’interzona degli scambi di identità, di genere non solo letterario ma anche sessuale. A un certo punto la prosa si fa poesia e poi ritorna al gioco degli incroci. Alla sperimentazione. Freud, Gadda, Saramago, le sinfonie mnestiche alla Proust e le indagini sulla letteratura che ricordano alcuni romanzi di Busi. Non manca una certa tonalità comica alla Buster Keaton o le atmosfere surreali di David Linch. La parte di Malvasia, con il pretesto di un’indagine sulla morte, indugia sul mistero più irrisolvibile e intrigato della vita, delle vite. Malvasie.

Gianluca Garrapa

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«Malvasia fu l’unica indicazione che ebbero per tutto il primo periodo. Malvasia che poteva essere un nome ma anche un cognome, che di sicuro non era di quelle parti e che era, con ogni evidenza, una donna.» In esergo al romanzo una citazione di Proust, da La prigioniera. Come nasce La parte di Malvasia, soprattutto rispetto ai tanti riferimenti letterari più o meno espliciti che vanno da Dante («E gli occhi no l’ardiscon di guardare») a Gadda («ma la cagione di morte è ignota») ai Fratelli Karamazov di Dostoevskij, a Freud («Un bambino viene picchiato.») Vi ho scorto la Giorgina Washington del Busi di Vita standard di un venditore provvisorio di collant e le due morti di Casanova di se stessi. Come nasce un romanzo che oltrepassa e mischia le carte dei generi?

La coesistenza e la contaminazione dei generi (così come la memoria viva delle letture classiche) fanno parte della mia esperienza letteraria complessiva: scrivo romanzi, poesie e saggi. Non patisco i vincoli, nel senso che non mi lascio inibire dagli steccati o dai pre-giudizi. Flaubert scrive romanzi rivoluzionari, non romanzi “canonici”. “La mia sola virtù fu la spudoratezza”, diceva Edoardo: l’ho fatto mio, questo verso, anche perché mi sono trovata spesso a vestire mio malgrado i panni dell’oggetto strano e ho dovuto scegliere una strategia di sopravvivenza. Osare. Figuriamoci se non recalcitro agli obblighi di genere, in uno spazio illimitato e sempre più espanso come la scrittura. Cos’è il genere? Un facilitatore di trame, se rispetti le convenzioni. Se hai come obiettivo fare della scrittura un’avventura conoscitiva, le convenzioni non bastano e caso mai può servire sfidarle, snudarle. “La mia sola virtù fu il mio pudore”, aggiungeva sempre lui, l’ES: e in effetti il pudore non è quello di non raccontarsi (in poesia come nelle narrazioni più estese), ma di non sottomettere il racconto a ragioni extraletterarie, che siano di rivalsa o di affermazione personale. Per me la letteratura è uno spazio di pudore in questo senso. Il mio lavoro è tutto interno alla letteratura, non riesco a pensare al mio libro in termini di “gancio” con i temi da talk-show o con le “cose che si vendono bene al pubblico”. L’ambizione è trovarmi negli scaffali delle librerie non presa a casaccio tra le pile totemiche o le vetrine, ma soppesata, discussa, criticata, perché no, ma comunque resistere alla misura minima dei mesi e pensare in anni, quanto meno. Costruire pezzo per pezzo, non guardare alla “carriera” ma al singolo libro come al momento di un processo. Non aver paura del “fallimento” perché la tenuta non si misura sui traffici di like. Avessi voluto avere “successo”, sarei andata a x-factor.

«Indizi non ce n’erano né potevano perché, come ormai sapete, sono viva e scrivo. Scrivo per voi, perché sappiate di più sul mio conto, dopo aver letto questa storia. Di più sul conto di Malvasia, che non è morta, ma è qui che vi parla.» Il tuo romanzo mi sembra indaghi la lingua e i giochi di potere, le relazioni sociali e le tradizioni familiari. È ironico, sarcastico, a volte addirittura comico. Il tema della morte è orizzonte che si amalgama al tema del desiderio sessuale. Poi il puntare gli occhi sul lettore, che ricorda un po’ le operazioni di ammiccamento esplicito nel Tristam Shandy di Laurence Sterne (anche per quella pagina in cui v’è una prosa in forma di poesia quasi un jpg). Colpisce pure la capacità di dare nome a personaggi che sono meglio definibili soggetti fluidi desideranti: come nascono le voci, i nomi e gli attori di questo lavoro?

Io penso che si scriva per emulazione (dei classici, dei modelli) e per insofferenza (verso i contemporanei, alcuni dei contemporanei, quelli egemoni, quelli che “vendono”, quelli “di cui si parla”, quelli che sembrano irrinunciabili oggi e di cui tra un mese ci saremo scordati): quando ho iniziato a scrivere Malvasia volevo scrivere, come dissi scherzosamente a Giulio Mozzi (che era stato l’editor del mio precedente romanzo, Cella) un romanzetto giallo, di successo. Poi ho cambiato idea, a p. 3, e mi sono liberata della protagonista, provando a occultarne il cadavere. Il giallo di Malvasia è la ricerca di un alibi per non scrivere un romanzo “ben fatto”: mi annoiano moltissimo questi libri scritti dalla stessa mano, con figurine di carta, luoghi connotati ammodino, in romanzesco o romanzese, pile di robe scritte con lo stencil e il c’era una volta, e lui che si chiama così e lei che si chiama cosà (nomi caruccetti, di solito, glamour da borghesia medioalta). Volevo mettere in forma un dolore, una ferita, una frattura, il momento dell’esistenza in cui prende corpo la consapevolezza della finitudine, proprio attraverso la corruzione del corpo. Siamo destinati a morire. Una questione banalotta, ma di cui molti di noi si sono resi conto solo durante la pandemia. In me questa consapevolezza è stata sempre presente, da quando ho deciso di occuparmi, negli studi accademici, di catabasi e di dialoghi coi morti e ho scoperto, grazie a Manganelli, che il sotto dell’Inferno somigliava al tragitto in picchiata della depressione (o della “tristezza”, per dirla con Barthes). Tutto questo, ancora prima di fare i conti con la morte dei miei genitori e col dialogo ininterrotto con le loro ombre (è la prima volta che lo dico in forma diretta, tra l’altro). Le voci di Malvasia sono le varie modulazioni della mia, che scrivo il libro e lo rendo esplicito rompendo la quarta parete: qualcuno mi aveva consigliato di togliere queste parti perché non favoriscono la suspension of disbilief (un concetto del 1817, si badi). La sorpresa è che queste voci, queste identità elastiche e fluttuanti, stiano “piacendo” ai lettori: non so esattamente dire come e perché sia avvenuto, la mia scrittura si è evoluta, ma non è sostanzialmente cambiata dagli altri libri. Forse è meno schermata, e ci sono pagine, in Malvasia, in cui senza scadere nell’intimismo diaristico, vuoto il sacco e racconto davvero com’è andata.

«Per i fotografi di paesaggi sono le cose, a protendersi.» E in questa narrazione? Qual è lo sguardo sul paesaggio?

Un mio amico critico d’arte scherzando dice che sono cieca, incapace di vedere il mondo fuori, tutta protesa verso l’interno. Un po’ quel che disse Desiati, quando mi ingaggiò per Il farmaco (io all’epoca scrivevo poesia, e i miei tentativi di romanzo li avevo tutti abortiti): tu sei brava a raccontare le pulsioni. I paesaggi non mi seducono (se-ducere), se non nel recupero mnestico, non so bene come “guardare” le cose. Quanto dura una visione, una contemplazione, come si descrive un luogo senza farne cartolina o cliché, come si restituisce l’effetto di realtà senza la fotografia? La descrizione è una specie di recensione della realtà, e io sono un recensore dell’insight. Non sono una viaggiatrice, perché dovrei muovere, insieme alla mia persona, la mia stanza, con tutto il suo portato di ombre e lesioni. In Malvasia ci sono dei luoghi, il commissariato, il ponte dei suicidi, il paese, ma sono come le caselle di Dogville, luoghi dello straniamento non del neorealismo. Quando devo descrivere il commissariato dico che non è il paradiso degli asmatici: la malattia è il mio occhio sul mondo e sul paesaggio devastato dell’umano.

«Ci sono cose che si ha paura a riconoscere: si raccontano perché è meglio mandarle fuori dalla testa, prima che diventino quei pensieri fissi, che più li ricacci indietro e più si riaffacciano in un momento della giornata che non vuoi.» Il romanzo scorre agevole seppure in una sorta di difficoltà correlata proprio a temi che di solito sono poco affrontati e in maniera angosciante, o vittimistica, magari moralistica. Ne La parte di Malvasia si parla di morte e di sesso, di cancro e di pedofilia, di memoria e di abbandono, di perversioni e di bisogni affettivi. Si parla degli esseri umani. C’è un modo per affrontare tematiche del genere senza scivolare rovinosamente nel biografismo patetico o nella superficialità di certo moralismo?

È quello che ho cercato di capire, e la forma è servita a questo. Una forma interrotta, desultoria, rizomatica. Una storia che inizia e finisce, ma con una pluralità di esiti, e che si dirama continuamente. Quando mi chiedono di aiutare il lettore mi vengono i brividi: il lettore perché dovrebbe essere diverso da chi scrive? Lo smarrimento, la deriva, la perdita di orientamento, sono la forza della scrittura. Che altrimenti sarebbe referto, anamnesi, o fotoromanzo.

«Le cose si danno direttamente entro un limite: non puoi andare oltre quello che sai già fare, la sperimentazione è un’illusione, il risultato un feticcio.» Nella quarta sezione del romanzo, A Ritroso (è forse un riferimento al romanzo di Joris Karl Huysmans  À rebours), pare di trovarsi davanti a una pagina dell’Ulisse di Joyce, in particolare il capitolo finale, quello del monologo di Molly Bloom: « […] si aggiusta tutto quando un cardine va oliato non si scende senza schiantarsi in pochi tratti puoi riconoscerlo e non esserne coinvolto quando l’amavo era come se tutto potesse riavvolgersi rewind no no grazie togliamo il fumo dalla vostra cucina evita di chiedermelo ogni volta che passo compra almeno l’accendino io mangiare […]» Cosa ne pensi della sperimentazione? In ambito letterario è un’illusione? E ci sono eroine della letteratura alle quali hai pensato dando un passato alla morta Malvasia?

Io penso che parlare di sperimentazione oggi, per un romanzo scritto come La parte di Malvasia (qualcuno si è persino chiesto se si possa dire “romanzo”, come se invece fosse lecito definire “romanzi” quei format irricevibili solo perché vanno dal c’era una volta una bambina al finale con la nonna salva o la nonna mangiata dal lupo con tutta la bambina, a seconda). Un romanzo scritto come La parte di Malvasia non può essere definito sperimentale, nel 2021. Nel 2021 è sperimentale il Romanzetto estivo di Bortolotti o Noi di Alessandro Broggi. Quelli sono libri inclassificabili, non hanno la durata canonica o la lingua del romanzo. La mia struttura, l’architettura e la lingua sono perfettamente compatibili col romanzo e con la sua tradizione modernista. Con Orlando di Woolf, che si addormenta uomo e si sveglia donna, col Krapps’ Tape beckettiano, una voce sul dorso del buio, con gli avvitamenti di Bernhard o della sua cover ne I quindicimila passi di Trevisan. Il problema è considerare romanzo il pattume di servizio, e doversi arrovellare per dare un nome alla letteratura. Chiamatelo Coso, non me ne importa niente, purché si capisca la differenza con la storiellina per intrattenere. Non intrattengo, e caso mai scombino i piani. Ma è quello che penso di dover fare per non ingannare nessuno. Certe cose si possono dire solo scomposte. Quanto a Malvasia, stavolta il suo prototipo non è letterario (come in Cella, che era una specie di Bovary andata a male), ma cinematografico: è la Laura Palmer di Lynch, il suo modello primario, che poi è una serie che non ho mai visto, Twin Peaks, quindi davvero un fantasma e un oggetto del desiderio. Le cose che ci turbano di più sono quelle che non conosciamo. E per raccontare l’ignoto della morte, un personaggio ignoto a me per prima, mi pareva perfetto.

«Non siamo unici, non siamo niente, siamo soltanto una mappatura geodetica dell’intersoggettivo: prendi qualcuno, mettilo al centro, vedi come reagisce.» È il secondo attacco della sezione finale che ha per titolo Fantasia (Fin de partie) e il riferimento all’opera teatrale (Finale di partita, appunto) di Beckett mi è parso inevitabile. In effetti nel romanzo aleggia anche il tema del travestimento. E i soggetti appaiono come attori, le stesse sezioni, simili a atti, del libro paiono suddivise in quadri. È una mia impressione o c’è una fascinazione teatrale nel tuo lavoro?

Credo sia esplicito sin dal titolo: la parte è innanzitutto la parte teatrale, che in questa pièce, a occhio, non dovrebbe essere molto ambita, visto che è quella in cui si muore, peraltro assai precocemente come la Marta Téllez di Marias, che ancor prima di essere “agita” viene tolta di mezzo. Però è anche quella da cui rinascono altre vite, e altre storie e possibilità. È vero che il libro si può leggere immaginandosi in una sala buia, teatrale, in cui arrivano queste voci beckettiane e non sono puro suono, foné, ma domande, interrogazioni, loop esistenziali. Parte però è anche la parzialità dello sguardo, le interrogazioni nascono dall’impossibilità di capire, e anche le voci diffratte. Barthes parlava di un’ipofisica della scrittura, e dei grandi temi verbali di uno scrittore. Malvasia è un’ipostasi e una sintesi di tutto quello che finora ho cercato di raccontare, nelle Stagioni, le mie prime poesie sulla morte di mia madre, nel Farmaco, dove l’ospedale era il luogo di detenzione di mio padre, spirito tra i più liberi che mi sia mai capitato di conoscere. Proprio attraverso la scrittura e la lettura, che lo affrancavano dalla pesantezza della malattia. Non c’è un modo per dire tutto questo, se non immergendosi nella vita-vite e fare dell’intrico dei rami, una narrazione con capo e coda, ma senza imbellettamenti posticci. O con un trucco naturale, come dicono le professioniste dell’estetica, ovvero le estetiste.

 

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Gilda Policastro, La parte di Malvasia, La Nave di Teseo ed., 2021

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