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Giulia Della Cioppa. Ventre

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Margherita ferma a letto. Il giorno del suo compleanno ha tentato di uccidersi, ce lo rivela nella prima riga dell’incipit: latte e Tavor, per addormentarsi, come fanno i bambini però non ce l’ha fatta, ad ammazzarsi, Margherita e adesso è bloccata nel letto di una stanza d’ospedale.

Non può muoversi, non può parlare, quando ci permette di varcare la soglia della sua storia è in stato vegetativo da un mese.

Un corpo immobile ha il sapore e l’odore di una prigione, in balia di cure e decisioni di madre, infermiere e dottori, Margherita potrebbe essere la martire perfetta non fosse che, Margherita, in prigione, lo è dalla nascita.

«Maledetto il giorno che sono nata», è la protagonista stessa a ripeterlo, mentre ripercorre a ritroso le istantanee di quei ventisei anni strappati al fuoco della giovinezza, sovraesposti nei nervi, sedati nelle pulsioni, sempre sull’orlo dell’esaurimento affettivo.

«Aveva l’abitudine di tirare su tutto quello che si poteva riutilizzare e poi accumularlo negli angoli della casa, nei cassetti, negli armadi, nei ripostigli organizzati secondo una logica che lei definiva infallibile e io solo pericolosa. Sei impaziente, diceva. Devi spostare un oggetto per volta. Sei impaziente. Quando avevo bisogno di qualcosa lasciavo a lei il compito di metterci le mani.»

La madre-mantide è onnipresente, una figura che contiene e fagocita, che impone, controlla; lo capiamo fin dalle prime pagine, da quando si trasferisce in ospedale e monitora meticolosamente l’attività del personale che ogni giorno è chino sul capezzale di sua figlia. Margherita, sente tutto, vede ogni cosa, con la stessa attenzione della sua carnefice. La loro è una guerra che si può combattere anche a colpi di silenzi. Il conflitto non si placa neppure al cospetto dell’enormità del gesto, neppure quando non può rispondere, la figlia, se non nella mente (e quindi a noi lettori) alle stilettate e le domande con cui mamma mantide la travolge ogni riemersione, ripercorrendo aneddoti, analizzando conflitti passati. Nel mentre, una balena fa capolino nella stanza, cambia di forma e aspetto, nuota negli angoli, tra i fasci di luce della mattina, a volte si accoccola sul ventre di Margherita. È un peso che la opprime costringendola a vivere nell’attesa. C’è anche un’infermiera, Bianca, che più di tutti si prende a cuore quel corpo insensibile. Bianca è diversa da ogni altra persona che ha mai conosciuto prima, le parla, la studia, mentre sposta le coperte, netta il corpo, espone le carni. Bianca però non si accontenta della pelle, vuole andare più in profondità: le sue dita sono bisturi, le sue labbra sono suture.

«La faccia si muove come fa l’asta di un metronomo. È sorpresa dal mio corpo spento, deve esserlo di fronte a tutti i corpi morti. Ammaliata dalla mia bocca muta, dagli arti inermi. Un’infermiera che del prendersi cura vuole solo il prendere; che dei corpi morti ama le salme. Vedo il rovescio. Le passioni e le loro ombre, i doppi.

Io non ero una di quelle.»

La rinascita esperienziale riparte dalla ferita, dal sangue stillato e la memoria di chi scrive torna alle esperienze di body art, alle azioni sentimentali di Gina Pane, per poi venir sbalzato di colpo nei meandri cronemberghiani di pellicole come Crash, seppure l’intento della Cioppa non abbia nulla in comune con l’estetica della performance. Della Pane resta affine l’atto d’amore, il tentativo di rinascita nella testimonianza di una cicatrice, di Cronenberg, l’esplorazione verso una nuova sensibilità, la frattura delle barriere imposte dall’apatia collettiva.

«Lo odio il pianoforte, gridavo, mi disperavo, il muco mi cadeva nella bocca, le ginocchia ballavano d’irrequietezza, mi asciugavo sui colletti gli occhi bagnati. Non odi il pianoforte. Odio è una parola grande. Mi guardava con la grazia di chi ti calma e ti convince, di chi si muove con delicatezza, il sorriso comprensivo di chi non fa la guerra perché sa che esistono modi migliori per portarti dalla propria parte.»

Nessuna ipocrisia viene invece concessa in questo Carnage A Trois e il dio del massacro assume i contorni di una madre cannibale la cui presenza imprigiona e mortifica quanto la sua vita di rinunce e allontanamenti ma neppure Bianca appare l’angelo salvifico a cui inizialmente si è portati a credere: nel palcoscenico della Cioppa non si salva nessuno anche se mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più su quest’ultima figura a tratti angelica, a tratti flagello, le cui oblique pulsioni restano in parte celate al lettore.

Si assiste immobili, inermi, a volte agghiacciati, altre volte affascinati, come davanti alla ripresa di un’operazione chirurgica il cui bisturi si muove nei ricordi di esistenze narcotizzate.

La mano è ferma, privata del timore di incedere e incidere, attraverso una prosa spigolosa, compatta e minimalista, che non concede tempi morti.

Allontanando lo sguardo dalla pagina, il romanzo della Cioppa assume la forma di una piramide la cui anima, alimentata da una triade resiliente: figlia-madre-infermiera è il nucleo di un micro mondo claustrofobico e cannibale, incapace di esaurirsi se non nell’annullamento di uno dei suoi poli.

Per una lettura della stimolazione, ricordandoci come una dolorosa ricostruzione, prima ancora che una apatica resa, è sempre e comunque preferibile alla sottomissione.

Stefano Bonazzi

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Ventre

Giulia Della Cioppa

Alter Ego Edizioni

16,00 euro — 152 pagine

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