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Johan Mijail. Chapeo

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Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…

Questi celebri versi di Urlo, di Ginsberg sono il modo più semplice per introdurre un libro altrettanto poetico e altrettanto forte come Chapeo, di Johan Mijail, edito dalle edizioni Arcoiris, un libro che il quotidiano El Pais ha definito uno dei migliori 50 libri usciti nel 2021, e nel quale io credo moltissimo e che mi ha lasciato come basito, con un terzo occhio per vedere ancora meglio l’umanità in un’interezza che, di solito, solo si intuisce. Ha dato contorni, Mijail, a immagini sfocate di corpi senza confini e riferimenti di genere, come quei ragazzi disperati e condottieri che Bolano definiva coraggiosi ragazzi omosessuali stampati come santini fosforescenti… che vivono in quella innominabile parte del sogno, che molti anni dopo chiameremo con vari nomi che significano sconfitta.

Chapeo è un termine intraducibile, come spiega il curatore e traduttore Raul Zecca Castel, secondo il dizionario della Real Academia Española, significa “ripulire la terra dalle erbacce”, ma Chapeo, nel senso caraibico e popolare che intende Mijail, assomiglia ad una vendetta che si consuma nella seduzione.

Il racconto parla del protagonista che si potrebbe identificare nello scrittore stesso e nel suo amico Luis che sogna di andare a New York e di trasformare il suo corpo perché Luis non vuole solo diventare una donna, ma vuole mangiarsi il mondo.

Il corpo di Mijail viene invece posseduto dagli spiriti, divenendo crocevia di culture, quella cristiana e quella del Vudu Haitiano. In lui confluiscono lo spirito feroce di San Miguel e quello docile di Anaísa e poi molti altri, che giungono all’improvviso e lo posseggono, invasandola, costringendola a dettare numeri e modellarle i pensieri e la personalità.

Nelle sue pagine migliori, Chapeo è un racconto di formazione anomalo, ma anche un racconto politico, che denuncia la condizione dolorosa di queste anime splendenti che abitano corpi sgraziati e trans-itori.

E quando Mijail scrive: Sento di associare il mio processo di trans-identità, alle vite impegnate in un desiderio di cambiamento, di trasformazione. Per risaltare insistentemente l’importanza di mettere al centro il corpo per immaginare altre possibilità.

Sembra di leggere quel Camille de Toledo che nel suo SuperPunk Arcimondano seppe tradurre con più lucidità di altri le aspirazioni e il cambiamento delle generazioni che crescevano sbandate nei primi anni del secolo nuovo, il cui rifiuto alla globalizzazione fu soffocato, letteralmente, nel sangue, nel cuore della civilissima Europa.

Molte volte, racconta ancora Mijail illustrando dinamiche comparabili a qualsiasi soffertissima minoranza, dentro la comunità omosessuale non eravamo solidali tra di noi e che, al contrario, eravamo crudeli, perché con la nostra rabbia cercavamo di espellere tutta l’umiliazione che avevamo sofferto fin da bambine a causa delle nostre differenze e, per questo… ci infilzavamo spilli negli occhi tra noi stesse.

Questo, in definitiva è un racconto sull’umanità come a noi si presenta adesso e come si è sempre presentata mentre urlava nella notte in cerca di luce. Quella stessa umanità deprivata e desolata che troviamo in Pasolini, nei suoi film e negli occhi di Franco Citti, nelle rughe di Citti, nel cuore di Citti che suggeriva l’idea che esiste una sola unica umanità senza genere, senza altra differenza se non quella di chi soffre e chi fa soffrire e tutti, si possono perdonare.

Pierangelo Consoli

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Chapeo, Johan Mijail, Edizioni Arcoiris, 2022, Pp. 115, Euro 12

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