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Jonathan Lethem anteprima. Amnesia Moon

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Dopo vent’anni dalla prima uscita e ormai fuori catalogo, ritorna Amnesia Moon di Jonathan Lethem, Minimum fax 2023, pp. 278, € 17,00 con traduzione di Martina Testa.

Il racconto strano e frammentato dell’autore di Gun, With Occasional Music (1994) presenta un futuro incerto in cui un uomo di nome Chaos vive nella vecchia sala proiezioni del Multiplex abbandonato nella città di Hatfork, Wyoming. Chaos, che ha perso la memoria del suo passato, cerca di sfuggire al presente immergendosi nell’alcol che produce in casa. Tuttavia, di notte, Chaos sogna di essere un uomo chiamato Everett, che ha una casa, un computer e una compagna di nome Gwen.

Quando le scorte di cibo di Hatfork si esauriscono, Chaos si scontra con un disturbante individuo di nome Kellogg, la cui capacità di sognare sembra conferire a Hatfork la sua realtà. Rifiutando Kellogg, Chaos si dirige verso la California insieme a Melinda, una giovane ragazza avvolta in pelliccia che si lamenta di sognare i sogni di Chaos. Durante il loro viaggio in montagna, i due si imbattono in una misteriosa nebbia verde, dove Chaos ricorda un altro nome, Moon, ma dimentica il resto e deve essere salvato da Melinda.

Arrivati in California, Chaos ed Melinda scoprono che i cittadini di Vacaville sono classificati in base alla loro fortuna, mentre i loro governanti sognano di vivere come star del cinema. A San Francisco, un potente sognatore trasforma le persone in oggetti; Chaos, ricordando di essere Everett Moon, si trasforma in un orologio. Nonostante la complessità della trama, il nucleo di questo romanzo rimane una storia semplice: la ricerca dell’identità e della famiglia.

Jonathan Lethem utilizza abilmente questa trama come trampolino di lancio per un commento sulla cultura americana e per un ritratto convincente del suo protagonista principale.

Carlo Tortarolo

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Edge aveva l’autostrada tutta per sé. Erano diventati il suo giocattolino, tutta quella vernice e quell’asfalto, grazie alla nuova legge di Kellogg in materia di diritto proprietario. Devi semplicemente decidere che una cosa è tua. Edge aveva un vero talento nel ricordarsi a memoria le parole esatte di Kellogg. E te la prendi così com’è, Edge. Con l’adrenalina che pompava, Edge pigiò sull’acceleratore. Il paesaggio sfrecciò via.

Passò sulla corsia di sinistra e attraversò sferragliando l’erba morta del divisorio, per poi immettersi sulla carreggiata diretta a ovest. Non devo rendere conto a nessuno, pensò. Viaggio contromano sull’autostrada. La mia autostrada. Aumentò ancora la velocità, un poco alla volta, finché la macchina non cominciò a tremare sugli ammortizzatori. I segnali stradali adesso erano rivolti dalla parte opposta, ma lui sapeva dove stava andando. Nessuno andava più in quella direzione, o quasi, nessuno tranne Edge, perché Edge era un ambasciatore. Ambasciator non porta pena. La testa di Edge era un garbuglio dei suoi pensieri misti a quelli di Kellogg, e spesso quelli di Kellogg sembravano più forti. Non scivolavano via così in fretta.

Nessuno andava più in quella direzione perché da dopo la guerra Hatfork era una città malata. Piena di mutanti e di pervertiti. Ogni tanto Kellogg ci mandava i suoi Ranger Alimentari con un po’ di viveri, ma di persona non ci metteva mai piede. Odiava Hatfork, la chiamava una sanguisuga sul fianco, una spina nella zampa e il mio aborto. Per come la vedeva Edge, Hatfork era una città pelosa. Ogni donna di Hatfork che aveva visto svestita – e ne aveva viste parecchie – aveva peli dove non avrebbe dovuto. Ogni uomo di Hatfork portava la barba. Tranne Caos.

Edge superò l’uscita sgommando e dovette fare marcia indietro. Percorrere la rampa d’accesso, che curvava alla rovescia, si rivelò più difficile del previsto, e un paio di volte slittò fuori dalla striscia d’asfalto, ma poco importava. Il vento aveva spazzato sabbia e terra su tutto il debole pendio della rampa, rendendo difficile capire dove finiva l’autostrada e dove iniziava il deserto; e comunque guidare sul suolo del deserto era quasi altrettanto facile.

La strada per Hatfork era disseminata di macchine abbandonate. Gli hatforkiani, pensò Edge, non sapevano proprio badare alle proprie cose. Lasciavano sempre che si accumulassero, senza ripararle. Le macchine non crescono mica sugli…

Edge si sforzò di trovare l’espressione adatta. Le macchine non cadono mica dal cielo, decise alla fine. Kellogg l’avrebbe detto meglio, ma al diavolo. Kellogg non c’era.

Mentre attraversava la città riuscì a intravedere gli abitanti, quasi tutti appostati a fissarlo da dietro le finestre con lenzuola al posto delle tende: ma se si volevano diffondere per bene le notizie bisognava andare al Multisala, dove abitava Caos. Ed era quello lo scopo di Edge: diffondere le notizie. Passò velocemente per il centro della città e intorno al lago in secca, fino ad arrivare al centro commerciale con il Multisala. Edge non invidiava gli hatforkiani, con le loro orge squallide e la prole patetica e mutata, ma a volte invidiava Caos, che se ne stava in disparte da tutto e aveva un bel posticino dove vivere. Il più bello, a dirla tutta. Mentre entrava con la macchina nel centro commerciale, Edge ammirò ancora una volta il modo in cui Caos aveva scritto il suo nome a lettere rosse di plastica sul tabellone del Multisala, decine di volte, nello spazio un tempo riservato ai titoli dei film. Sala Uno: C a O s. Sala Due: c A O s. Sala Tre: C A o S. E così via.

Edge suonò due volte il clacson mentre si fermava di fronte al Multisala, poi scese e sbatté forte la portiera a mo’ di punteggiatura. Non vedeva la macchina di Caos. Era solo. Con una serie di progetti che gli si rimescolavano nelle tenebre del cervello, si avvicinò alla porta e scosse la maniglia. Niente. Caos era troppo furbo perché qualcuno potesse saccheggiargli le scorte.

Edge girò tutto intorno all’enorme edificio e raggiunse il vicoletto che lo separava dal Grande Magazzino devastato e depredato. Lì c’erano tre grossi cassonetti verdi, ammaccati e scarabocchiati di vernice spray. Annusando l’aria immobile, a Edge parve di individuare qualcosa di buono dentro uno dei tre. Si arrampicò su ciascun cassonetto, uno dopo l’altro, e sbirciò dentro; nel terzo trovò il bottino. Una ghirlanda di mosche nere ronzava su un mucchietto d’ossa di uccello, rimaste a marcire sotto il sole fino a diventare verdi e viola.

Edge si lasciò scivolare di nuovo sul terreno polveroso. Non ne valeva la pena. Accontentati del cibo in scatola. Le parole esatte di Kellogg. Non sprecare calorie andando in cerca di rifiuti. Edge ricordava che Kellogg gli aveva parlato di un tipo di cibo che richiedeva più calorie per masticarlo di quante ne conteneva: cibo che ti faceva morire di fame. Ma ripensandoci a posteriori, Edge concluse che quella storia rientrava nella piccola percentuale delle affermazioni di Kellogg che potevano essere classificate senza timore come stronzate. Tutto contiene calorie, si disse Edge. Il legno, la carta, la polvere: tutto quanto. Lo so per esperienza. Lo so – qual era la parola che usava Kellogg? – empiricamente.

Estratto da Amnesia Moon di Jonathan Lethem, traduzione di Martina Testa

© Jonathan Lether, 1995

© minimum fax, 2003, 2023

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