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Juan Pablo Villalobos. Non pretendo che qualcuno mi creda

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Con Villalobos ho capito che ogni pagina è un’incognita. Al termine della seconda opera dello scrittore messicano, portato meritatamente in Italia da Cento Autori, l’impressione generale è di essere stati travolti da qualcosa di indefinito, geniale, stordente come la bordata sonica di un riff psichedelico sotto il palco di un concerto in cui è proibito mettersi a sedere.

Ci ritrova con l’occhio a pesce e l’espressione vagamente stranita, come lo sguardo del protagonista, Juan Pablo Villalobos, che è pseudonimo dell’autore che forse è in parte anche protagonista stesso, perché nel romanzo -il Villalobos del romanzo- sta scrivendo anche lui un romanzo e tutto questo polpettone metanarrativo è forse l’ennesima conferma di quanto spesso il quotidiano sia in parte già narrazione: un’infinita Rambla di maestosi saliscendi, meraviglie, imboscate.

Dopo l’esilarante Ti vendo un cane, Villalobos abbandona l’atmosfera condominiale per un viaggio itinerante all’interno di una Barcellona le cui luci ed ombre rimandano alle atmosfere di un gangster movie in salsa studentesca.

Juan Pablo, studente di letteratura, poco prima del suo trasferimento in territorio catalano per completare il dottorato in compagnia della fidanzata, si troverà suo malgrado coinvolto all’interno in un pasticciaccio a base di narcotrafficanti incarogniti e spietati per colpa di un cugino maldestro dalle malavitose aspirazioni. Una pallottola di troppo, qualche dettaglio splatter ed ecco che quello che nelle intenzioni doveva essere un soggiorno di studio e ricerca si trasformerà ben presto in un viaggio all’interno di un intricato complotto al vetriolo.

Definire e incasellare l’estro di Villalobos in un singolo genere diventa impresa impossibile e, se già con il precedente romanzo abbiamo avuto un assaggio di quanto fervida e instabile potesse essere la sua immaginazione, in questa nuova opera ogni barriera narrativa viene magistralmente abbattuta: occorre esser pronti all’imprevisto, allo scambio di persona, al ribaltamento delle atmosfere perché l’istrionica architettura imbastita dall’autore non rinuncia alla riflessione letteraria così come all’influenza cinematografica (non è un caso che proprio in questi giorni Netflix ne stia trasmettendo l’adattamento cinematografico).

«Se c’è una cosa che mi ha insegnato la letteratura, è che per raggiungere qualcosa che sembra impossibile (o fantastica, assurda, meravigliosa, magica) basta soddisfare una serie di requisiti che, in fondo, non sono poi così difficili. Nel peggiore dei casi, devi creare un nuovo mondo con regole di comportamento diverse. Nel migliore, basta solo rispettare una logica narrativa.»

Esplicito dunque il ruolo di questo protagonista/autore che, nell’imbastire il suo “romanzo-nel-romanzo”, ci fa capire più volte quanto tutto ciò che verrà esposto potrebbe essere vero così come frutto di un’allucinazione, non ci si voglia dunque soffermare troppo sulla trama, foriera di twist ad opera di catalani istrionici e spesso stravaganti («Ti hanno spaventato i Mossos d’E-squadra?») ma, per chi scrive, anche la prosa a questo giro compie un balzo avanti. Un adagio che ne guadagna in tensione accumulandola, gradualmente, per poi smorzarla nel giro di una battuta o uno sproloquio delirante che fa passare in secondo piano persino l’incombente minaccia di morte. Il gioco sta tutto in quel senso iperbolico che attraversa e ribalta le pagine: l’incredibile si nasconde nei dettagli più banali e l’intento non è più quello di stupire con l’azione ma servirsene per rimandare a riflessioni laterali, metanarrative, attraverso lunghe diatribe tarantiniane che ingigantiscono il focus e mettono in luce l’assurdità del quotidiano.

Di nuovo, l’”indagine” si fa pretesto per raccontarci di una Barcellona inaspettatamente fredda, inospitale, con i suoi preconcetti e le sue avversioni («Ho riletto tutto d’un fiato il Diario de Escudillers. Mi è rimasta la consolazione del fatto che io viva in un quartiere migliore di quello di Pitol, anche se l’ultima frase mi ha lasciato l’amaro in bocca: “La verità è che non cambierei Barcellona con nessun’altra città del mondo”. Io la cambierei con qualsiasi altra.»), soprattutto nei frangenti raccontati dalla voce di Valentina: una città labirinto le cui ombre si allungano negli studentati decadenti, assaporando la silenziosa malinconia di una camminata solitaria all’interno di strade multietniche in cui sopravvivere equivale troppo spesso ad accontentarsi, isolarsi, aspettare nello spazio angusto di una stanza, la chiamata di una voce amica.

«Non scrivo per chiedere perdono, non scrivo per giustificarmi, per dare spiegazioni, non è una confessione. Scrivo perché in fondo sono un cinico che in realtà ha sempre e solo voluto scrivere un romanzo. A qualsiasi costo. Un romanzo come quelli che mi piace leggere. Sono un cinico e se non mi consegno alla polizia o se non mi butto dalla finestra è solo per il fatto che non sono disposto a interrompere il romanzo. Voglio arrivare fino alla fine. Costi quel che costi.

E anche se esagero un po’ (non c’è commedia senza iperbole), tutto ciò che racconto nel mio romanzo è vero. Non c’è posto per la finzione nel mio romanzo. Posso dimostrarlo, ho le prove. È tutto vero. Non pretendo che qualcuno mi creda.»

Villalobos, come i bravi maestri ci hanno insegnato, conosce i generi, li abbraccia e se ne prende gioco. Mescola fiction, auto-fiction, ironia e violenza, senza porre limiti a un canovaccio istrionico in grado di trascinarci all’interno di una pellicola di Buster Keaton, con le movenze e l’espressione svampita di un impacciato Woody Allen, il tutto osservato dal periscopio di un Bolaño contemporaneo che di certo gradirebbe questa geografia astrusa di vicoli ciechi.

Non pretendo che qualcuno mi creda, continua a ripeterci la voce narrante e allora mettiamoci comodi e godiamoci il viaggio, aggiungo io, assecondando il nostro bisogno intrinseco e spontaneo di trovare nuove traiettorie, per decifrare (o almeno, provarci) questo presente menzognero, camaleontico, dannatamente intrigante.

Buona la prima, esplosiva la seconda.

Stefano Bonazzi

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Non pretendo che qualcuno mi creda

Juan Pablo Villalobos

Cento Autori

16,00 euro — 242 pagine

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