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Kiese Laymon anteprima. Come uccidersi e uccidere in America

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Con il potentissimo Come uccidersi e uccidere in America, che ora esce da Edizioni Black Coffee nella traduzione di Leonardo Taiuti, arriva in Italia un autore come Kiese Laymon, una delle voci più sorprendenti del panorama letterario americano.

Nel libro, l’autore è alle prese con l’analisi del proprio passato e, allo stesso tempo, del proprio tempo presente, operazione che presume un atto di coraggio. Nei tredici saggi che compongono Come uccidersi e uccidere in America, infatti, Laymon passa al setaccio la propria esistenza e, necessariamente, si trova ad affrontare un tema come la questione razziale, ma anche i dissidi e i problemi insiti alla famiglia, la violenza e il successo: elementi che stanno profondamente dentro il tessuto della cultura e della società americana. Il testo si apre poi alla ricostruzione delle fasi che hanno segnato il dilagare della pandemia, mettendo in evidenza su ogni cosa la capacità delle persone di prendersi cura l’una dell’altra, e prosegue nell’affrontare la revisione del processo che ha portato lo stesso Laymon all’esordio letterario. Non mancano i riferimenti e le riflessioni sui principali simboli della vita americana, come l’inno nazionale e la bandiera.

Paolo Melissi

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A cosa giuro fedeltà

Al muro di casa mia è appesa una bandiera americana malmessa. Lo so che dovrei tirarla giù, ma ho paura. Negli ultimi quindici anni ho abitato in vari appartamenti nel nord dello Stato di New York. Quest’estate ho accettato un nuovo lavoro all’Università del Mississippi e mi sono trasferito a Oxford in una casa di proprietà del college, a pochi passi da quella appartenuta a William Faulkner, Rowan Oak. Di questa nuova casa niente mi ha sorpreso più della bandiera americana e di quelle vecchie con la magnolia che ho trovato appese alle ville coloniali, ai ranch e ai bungalow tutto intorno.

Sono nato e cresciuto a Jackson, tre ore a sud di Oxford, ma in vita mia non avevo mai visto una bandiera con la magnolia, che dal 1861 al 1865 è stata il vessillo ufficiale dello Stato. Ha una stella bianca dentro un quadrato blu in alto a sinistra, e una striscia rossa a destra. Non vi sono emblemi confederati come nella nostra bandiera attuale, che è stata adottata nel 1894. C’è un semplice albero di magnolia che galleggia come un’acconciatura afro verde al centro di uno spazio bianco.

Il mio primo giorno nel quartiere, vedere tutti quei vessilli con l’afro verde mi ha fatto pensare che i miei vicini bianchi fossero quelli che in famiglia chiamavamo «i bianchi buoni». Prima di scoprire che la bandiera con la magnolia era in realtà quella della secessione del Mississippi, immaginavo che quei bianchi buoni fossero gente coraggiosa pronta ad affrontare a viso aperto le stratificazioni di potere bianco e sofferenza nera cucite con la forza nel passato della nazione, del nostro Stato e anche nella bandiera che oggi va per la maggiore in Mississippi.

Per me comunque la bandiera americana non è poi tanto migliore. Anzi, è decisamente peggio. Mi ricorda ciò cui siamo sopravvissuti noi neri e quello che per secoli abbiamo subìto per mano dei bianchi mentre loro si nascondevano dietro il vessillo a stelle e strisce. A differenza delle altre bandiere del vicinato, quella appesa al muro di casa mia è probabilmente la più polverosa e consumata che abbia mai visto: il blu sanguina viola, il rosso sfuma in rosa e il bianco vuole disperatamente prendere il colore della torta alla banana. In alto ci sono due lunghe lacerazioni, e una più ampia lungo la striscia in fondo. È raro che garrisca al vento. A seconda della brezza pende placida a sinistra o a destra, ma perlopiù se ne sta lì, floscia, con un’aria né orgogliosa né contrita.

Ho chiesto alla mamma cosa avrebbe significato, a livello morale, se un ingrato ragazzo nero privo di rimorsi come me avesse lasciato quel vessillo appeso. Mi ha risposto che tirandola giù avrei rimediato dei danni fisici. Ma ho giurato, andando contro ai suoi consigli, di rimuoverla il fine settimana successivo.

Quand’è giunto il momento sono uscito in veranda, ho adocchiato la bandiera, l’ho annusata, mi sono guardato intorno e alla fine ho avuto troppa paura per procedere. Quindi ho appoggiato il mio culone nero sul bordo del portico, ho sorseggiato un tè dolce che non era dolce abbastanza e sono rimasto a guardare i bianchi che mi guardavano mentre li guardavo assistere al crollo del valore dei loro immobili.

Salutavo, dicevo «Salve» e «Come va?» da buon meschino giovanotto del Mississippi beneducato. Lì seduto accanto alla bandiera, nel mio nuovo quartiere, nascosto dietro un’enorme caraffa di tè e un MacBook fornito dall’università, mi sentivo un aspirante radicale, un venduto nero con la puzza sotto il naso, un vagabondo americano con le ginocchia di pasta frolla in cerca di una battaglia da vincere facilmente. Dentro però non capivo dove fossi passato, dove mi trovassi ora e chi avrei potuto scegliere di essere un domani. Avevo il bisogno pressante che qualcuno definisse coraggio la mia codardia. Mi chiedevo se non avessi scelto il mestiere sbagliato, il quartiere sbagliato, la casa sbagliata e lo Stato sbagliato.

La codardia del bianco americano ha dato vita alla povertà intergenerazionale dei neri. La povertà intergenerazionale dei neri, tra le altre cose, è stata il motivo che mi ha spinto ad accettare un lavoro e una casa gratis a Oxford invece che a Jackson. Perché il lavoro a Oxford mi ha consentito di prendermi cura della nonna come meritava. Tecnicamente sono a casa, ma non ho mai collegato l’idea di casa con questa zona del Mississippi, con così tanti bianchi o con l’America. Su al nord, a New York, sono diventato un americano nero. E sono tornato a casa nello Stato della Magnolia per ridiventare un mississippiano nero.

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