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Levi Henriksen. Il lungo inverno di Dan Kaspersen

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Una piccola comunità norvegese fa da teatro a Il lungo inverno di Dan Kaspersen, secondo romanzo di Levi Henriksen, pubblicato in Italia da Iperborea (traduzione di A. Berardini). Il protagonista è un quarantenne che, a Natale, fa ritorno al suo paese dopo due anni di carcere per spaccio di stupefacenti. Tutt’intorno si avverte la stretta del freddo e la presenza del ghiaccio. Il filo conduttore che attraversa il racconto è rappresentato dal dolore, dal senso di colpa, dagli scheletri nell’armadio ma, anche, dall’amore inteso come una prospettiva. Il “contenitore”, invece, è la comunità, il villaggio, con i suoi problemi, le sue storie, le sue dinamiche. Il pregio della scrittura di Henriksen è quello di rendere onore a tutto questo con una levità e una capacità narrativa davvero cristallina.

Paolo Melissi

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Nella penombra, passò le dita sul metallo zigrinato e fece scattare l’accendino per rivedere quel che lui e suo fratello vi avevano inciso quasi un quarto di secolo prima. Pioveva a dirotto, un acquazzone così violento che avevano dovuto spingere le bici nel canale e aspettare quasi mezz’ora prima che passasse.

Con un chiodo arrugginito avevano inciso i nomi dei loro calciatori preferiti del Leeds, i dischi migliori dei Ramones, i nomi di Ace Frehley e Paul Stanley, cose del genere. Cose che per due ragazzini di dodici e quattordici anni erano importanti.

Le lettere di Dan erano grandi e squadrate, quelle di Jakob piccole e timide. Sopra le loro iniziali e «’80», Jakob aveva inciso un altro numero: «48.» 48. Suo fratello non volle dirgli cosa significava, ma doveva essere il nome di una ragazza. Chiaro che era il nome di una ragazza. Mia, Marit o Mette, una delle compagne di classe. Le lettere del nome trasformate in numeri e ricomposte in una somma. 48. A, B, C, 1, 2, 3, ti amo. Dodici anni soltanto, ma J.K. aveva già collezionato lettere e numeri sufficienti a fargli battere il cuore. Dodici anni. Ruggine e pioggia. 48.

Dan non aveva mai scoperto per cosa stesse quel numero, e ammettere che mai l’avrebbe saputo gli fece bruciare gli occhi. Arrancò fuori dal canale, cadde nella neve farinosa, si rialzò, cadde di nuovo e si trascinò fino all’auto.

(…)

Quando si svegliò, la città pareva un quadro in cui i colori si sono appena asciugati. Sulle chiome degli abeti in cima alle colline il sole era dipinto ad ampie pennellate di un giallo pallido, come una promessa d’estate, di luce, di ore più leggere, di qualcosa che non riusciva ad arrivare fino a Kongsvinger, alla sua gente, perlomeno non ancora, perlomeno non fino a lui. Chiuse l’occhio sinistro. Pensò ai soldati, sdraiati come lui nella fortezza, sdraiati a guardare l’attracco dei traghetti in attesa degli svedesi. Erano passati quasi duecento anni da quando norvegesi e svedesi si erano ammazzati sulle colline e nei campi di Skogli, ma ogni 17 maggio i soldati norvegesi venivano ancora onorati con corone deposte ai piedi dei monumenti da sindaci che facevano l’inchino e ufficiali che battevano i tacchi. Era come si era vissuti o come si era morti a decidere se di te restava solo un nome su una pietra contro cui appassivano i fiori?

 

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