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Luca Cristiano. Mezzafaccia

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Ecco i nuovi zombi, signori. Gli sfigurati, smembrati, i non morti che a malapena si reggono in piedi ma che, udite udite, a questo giro di pandemia, invece che limitarsi a divorare hanno ritrovato la voglia di prendere in mano un libro, sforzarsi di ricordar parola, anzi, vi dirò di più, comprenderne il significato, persino. Ecco i nuovi zombi, già, sia mai che cinema e letteratura non ce ne abbiano già scagliati addosso abbastanza. «È una storpia illusione che qualcosa smetta mai di accadere», ce lo dice persino la sinossi.

Prima bradipi, poi saette, agli albori primati, poi senzienti e noi disgraziati che nelle annate apocalittiche non si poteva fare altro che stare a scappare, senza neppure prendersi il tempo di capire tutta quella fame da dove realmente scaturisse. C’è voluto Romero e le sue trilogie politiche a sbatterci in faccia il paradosso esplicito: zombi-manifesto, zombi-messaggero, zombi-specchio di un’umanità smarrita ancor prima che la carne iniziasse a puzzare, ci riprova oggi Luca Cristiano e i suoi “nuovi morti” a riproporre la questione.

Uomini di sopra, morti di sotto, come vuole la Bibbia e quindi si potrebbe pensare a una sorta di equilibrio ritrovato alias, l’armistizio definitivo: “una metropolitana per domarli, un ratto per sfamarli, un accalappiacani per ghermirli e nel buio incatenarli”.

Sì, perché nella Roma distopica imbastita dall’autore potentino finalmente la metropolitana ha trovato la sua degna funzione. I morti stanno tutti lì dentro, prima murati, poi sbarrati, per esser meglio osservati, studiati, testati e forse un giorno “compresi” da quegli operosi abitanti di superficie che in alcuni frangenti non appaiono poi troppo diversi dalle loro nauseanti nemesi, non tanto per le pulsioni, bensì per quel costante senso di smarrimento che ne muove l’esistenza. Eccoci dunque al ribaltamento della prospettiva. Se dall’alba romeriana siamo stati abituati a veder l’errante vagabondo soltanto come una minaccia da prendere a fucilate, nel libro di Cristiano costui si fa protagonista della scena, «I morti danno spettacolo, si esibiscono gratis».

Il giovane sosia di DiCaprio, la piccola Tokyo, la scrittrice AnnaCambi (il motivo per cui il suo nome va scritto rigorosamente attaccato lo capirete solo leggendo), una sfigurata Topolino e Mezzafaccia: pantheon di adorabili freak ciondolanti le cui voci si alternano in una narrazione corale che strapperà (mai verbo fu più adeguato) più di un sorriso e il cui carisma appare fin da subito più ammaliante delle loro controparti umane.

Non si tragga in inganno il lettore però, ‘che non di sola carne penzolante è composto il testo qui presente, bensì una pletora di situazioni survival che sfiorano l’assurdo ma con un costante sottofondo politico su cui, a parer di chi scrive, si potrebbe di tracciare un’ipotetica linea di riflessione: se dall’umano si è franati nell’inumano, che non possa essere questo stesso moto circolare a riportarci all’origine?

«Fino a quando i vivi sono vivi ed eseguono gli ordini, magari senza accorgersene oppure fornendo al sistema quella parte di dissenso che ne garantisce l’equilibrio, va bene. Se si azzardano a risvegliarsi dopo la morte e fanno l’unica cosa che possono fare per nutrirsi, non c’è margine di discussione. Finiscono sotto il tappeto. Sotto l’asfalto. Sotto le case. Sotto le piattaforme su cui poggiano quattro colonne che richiudono al loro interno il volo spezzato di un pipistrello. Piattaforme che non poggiano su niente».

Numerosi sono i riferimenti al contemporaneo, a quella bizzarra capacità tutta umana di riuscire ad adattarsi e sfruttare la catastrofe di turno: basti pensare al modo in cui vengono allevati i topi per sfamare i non morti, alla perversa idea di usare le orde come difesa verso tossici e malintenzionati o ai gruppi di resistenza Dead Friendly (tributo esplicito a Gay Friendly), coalizzati in aiuto degli oppressi: l’accusa sociale è palese e in certi frangenti si è portati a pensare che il morto non sia certo il problema originario, neppure il maggiore. Non conosco l’autore eppure mi piace immaginarlo come un lettore onnivoro dall’animo militante: grande cura infatti è riposta nella prosa che mantiene un’altezza di quota sempre costante e mirabile anche quando non si fa scrupoli a sporcarsi di qualche schizzetto di fluido corporeo o frattaglie. Il romanzo dunque scardina il genere, se ne ciba e lo rigurgita fornendo materia nuova e inclassificabile. In questo bolo fumante non tutto è messo a fuoco, in alcuni punti si ha la percezione di perdere la bussola narrativa e forse qualche incursione citazionistica si poteva evitare ma la sostanza alla base resta di profondo interesse sociale e antropologico.

«I primi che hanno fatto passare attraverso grate e sbarre avanzi di cibo e scarti animali che voi vivi non mangiate lo hanno fatto lanciando la roba, senza avvicinarsi. Ancora non lo sapevano, ma stavano compiendo il primo gesto politico sovversivo di quest’epoca fin troppo pacificata, sotto anestesia sociale. Erano decenni che gli uomini avevano smesso di essere in contrasto tra loro sulle decisioni di carattere pubblico. Ciò che era per tutti, andava sempre bene a tutti. Disaccordo e polemica sono rientrati tra i fatti umani quando alcuni vivi hanno spontaneamente iniziato a nutrire noi morti».

Nel carosello di situazioni allestite dall’autore il ritmo si mantiene sempre sobriamente bilanciato in un moto avant-pop da cui traspare l’impellenza alla narrazione (esplicitata già nelle prime pagine). Non ci si lasci dunque impressionare dalla sanguigna copertina del maestro Ceccato, qui le viscere sono di contorno e nel caleidoscopio delle storie che vi si rincorrono c’è spazio anche per l’incursione fiabesca (in una spassosa rivisitazione della favola della rana e dello scorpione) e qualche stilettata al mondo editoriale, nello specifico alla critica letteraria che spesso si arrovella a trovar significati anche a costo di fagocitare lo spirito dell’opera originale.

In superficie dunque la brava gente dalla vita sciapa che si arrovella per sfruttare al meglio la manovalanza mortuaria, sottoterra questa manciata di zombie poco più che senzienti ma desiderosi di ritrovar scintilla nella semplicità di una parola riscoperta, che sia premura del lettore tracciare la linea tra l’assurdo, l’accettabile e il razionale. A chi scrive resta la convinzione che poco importa da che parte al termine della corsa ci si ritroverà schierati: sempre di modi per sopravvivere e restare umani, si torna a parlare.

«Una metafora è solo una metafora. Dieci metafore che lavorano insieme fanno un’allegoria. Un’allegoria ripetuta uguale mille volte si chiama incantesimo. Una sequenza di incantesimi che risalgono le bocche di un popolo intero si chiama liturgia. Un milione di liturgie in lotta tutti contro tutti per cinquemila anni di fila è quello che io chiamo letteratura.

La letteratura è l’insurrezione ontologica degli scriventi contro le parole, attraverso le parole. Oppure, spesso, non è niente».

Ben venga dunque quest’insurrezione sfaccettata, multiforme, contaminata (e contaminante), ben venga sempre la parola, ultimo baluardo di resistenza, sia mai, di salvezza.

Stefano Bonazzi

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Mezzafaccia

Luca Cristiano

Del Vecchio Editore

19,00 euro — 256 pagine

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