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Luis Gusmán. Neanche da morto il nome perdesti

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Quando ho saputo che Loris Tassi avrebbe tradotto un altro Gusmán, una farfalla nel mio stomaco si è schiusa.

Tutti quelli che hanno amato Il Gemello e Tennessee, gli appassionati Eccentrici che sussurrano il catalogo delle Edizioni Arcoiris come la formazione di una di quelle squadre mai vincenti e sempre piene di storie, a volte anche di pistole, di rapine, di alcool e goal da cineteca senza nessuna utilità, non potevano che reagire allo stesso modo. I lettori che ignorano le classifiche, che saltano i civici delle librerie di catena come se fossero pozzanghere, che cercano nelle indipendenti i loro compagni, che rovistano tra gli usati, sulle bancarelle in cerca di preziosi scrittori di cui nessuno parla oltre loro, tutti questi vivrebbero nei libri di Gusmán, Di Laiseca, di Bolano e di Fresán, assai più agevolmente che nelle proprie vite.

Neanche da morto il nome perdesti è una storia di desaparecidos. Ana Botero riceve una telefonata da un uomo di nome Varelita.

Suo marito, che lei credeva morto in un agguato, è vivo. Se vuole avere le prove deve pagare. Prima una lettera, poi una nuova estorsione, un indirizzo, un manicomio.

Ana Botero conosce Varelita da quando era solo una ragazza, lui e un altro uomo di nome Varela la rapirono, la torturarono.

C’è stato un tempo, in Argentina e non solo, in cui vite come queste si intrecciavano in un passato oscuro, indecifrabile come una terra di frontiera in cui si passava da un lato all’altro della storia.

Piccoli delinquenti, sognatori, disperati, fanatici, ribelli, si assomigliavano come Stelle distanti. Artisti, pazzi e criminali vissero Disincontri in quella città assente grande quanto un continente nato sopra Eroi e tombe senza nome. Ci sono tante Ana Botero e Federico Santoro e Varela e Varelita che ingolfano come emboli Le vene aperte dell’America latina, persone che hanno diversi nomi e nessuno, che hanno combattuto con fierezza le innumerevoli guerre fiorite perdute in partenza.

Questo romanzo è una lastra dove quello che conta è ciò che non vedi. La polvere che si disperde nell’aria proviene da una gola profondissima scavata nella roccia che sembra il centro di tutta questa storia, o il burrone dove i segreti si sono perduti. Tutti quelli che vi si avventurano in cerca di risposte tornano lasciando orme bianche su quello che una volta era stato un tappeto.

La cava è forse il Melvill di questo libro, la grande metafora che tutto contiene. Attraverso un personaggio, solo apparentemente minore, Gusmán spiega la dittatura militare meglio che con un saggio di parole. Barragán, ex direttore del giornale El Pregón, dice: quando la cava era in attività, non si poteva respirare. Se c’era molto vento, il vento del nord, ci legavamo dei fazzoletti in faccia a mo’ di mascherine. Questo ci costringeva a parlare con il fazzoletto in bocca. Per cui ci veniva una voce strana. Il fine settimana, quando nella cava non si lavorava, tutti andavamo in giro a faccia scoperta. Un sabato andai al ballo e le persone mi risultarono irriconoscibili. Perfino le voci erano diverse. Era strano: non sapevo chi era chi. Oggi soffia il vento del nord, si può respirare in paese?

Sì, credo che oggi si possa respirare.

Gusmán non aiuta nessuno, non fornisce particolari, non descrive. Non ci sono mani, pochissime bocche. Santoro ha i denti da coniglio, ma questo lo apprendiamo solo verso la fine. Varela è più anziano di Varelita, ma anche questo lo dobbiamo dedurre e forse ci sbagliamo. Ana Botero è minuta o emaciata. Non ricordo il colore dei suoi capelli. Ci sono personaggi che entrano e escono, che ci portano un’informazione e poi spariscono. Le parole di questa storia sembrano i sussurri di un cimitero. Le informazioni che riceviamo, che carpiamo dai dialoghi, sono spesso contraddittorie. Dobbiamo chiudere gli occhi, accettare che la vita è la letteratura, che non esiste una spiegazione, che tutto finisce come in questo romanzo: così

Pierangelo Consoli

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Neanche da morto il nome perdesti, Luis Gusmán, Edizioni Arcoiris, 2023, Pp. 178, euro 13.

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