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Margherita Altea. Un innocente assassino

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Premessa: questo libro è il frutto del fato benevolo.

Il ritrovamento di un diario di fine anni 800, narrante una storia di rara potenza, rappresenta già un bel colpo di fortuna. Ma quando gli Dei della letteratura hanno fatto in modo che quelle pagine preziose raggiungessero il cuore e le dita di una scrittrice sensibile, hanno decretato la genesi di un piccolo miracolo.

Un gioiellino di carta in parole, un’opera elegante come un abito da sera, che voglio trattare con la medesima delicatezza di cui è composto, stando attento a non sgualcirlo.

Un romanzo senza un reale genere di appartenenza, a sottolinearne l’unicità.

Forse si può definire un racconto epico familiare, basandosi sul concetto di valore, coraggio, onestà.

Margherita Altea decide di far suoi i pensieri e le emozioni descritte da un suo antenato, Giovanni Antonio Oggiano, che nel 1898 fu rinchiuso ingiustamente presso il carcere di Tempio, per un omicidio mai commesso.

Le sue mani presero a tremare. Le guardò, erano vestite di inchiostro che alla luce beffarda del lume appariva o quasi di un color porpora o rosso. Ecco, un rosso…rosso sangue. Aveva già visto quel velo senza vita ricoprire quegli stessi palmi aperti e rivolti verso un cielo sterile, inclemente. Tentò di lavarlo via, ma quello, come una macchia impressa nell’anima rimase lì, a marcire.

L’uomo, soprattutto nella prima parte della detenzione, trovò nella scrittura la sua ancora di una duplice salvezza: la propria esistenza e la salvaguardia della propria reputazione, in particolar modo agli occhi dell’adorata famiglia.

L’autrice, riconfluendo in quel sangue antico, che il passare del tempo non è riuscito a far evaporare, ha avuto quindi un enorme coinvolgimento emotivo. Nonostante questa difficoltà supplementare, è riuscita nell’impresa di effettuare un’opera di trasformazione, partendo dalle frammentarie descrizioni di un diario, per giungere ad una prosa romanzata di eccellente qualità, sempre in rispetto della memoria della persona cara.

Siamo in Gallura, zona nord della Sardegna. All’alba del ventesimo secolo il contesto è quello di una vita prettamente rurale, fatta di terra e dei suoi frutti, di animali e delle loro carni. Giovanni è un giovane ragazzo, costretto a crescere in fretta a causa della morte del padre naturale e alla presenza di un patrigno aguzzino, che condiziona l’amore e le scelte della tenera e fragile madre. Sin da piccolo mostra un carattere forte e determinato, ribelle nel senso positivo del termine, colmo di quegli ideali, che rappresenteranno la sua croce e la sua salvezza. In realtà egli non chiede poi molto alla propria esistenza, nulla di diverso dalle aspirazioni di qualsiasi uomo onesto, abitante in quel tempo e in quel luogo: entrare in possesso di un proprio stazzu gaddùresu (stazzo gallurese), crearsi una famiglia e sostenerla col proprio lavoro. Amare e lasciarsi amare da una donna e dai suoi figli.

Bisogni primari, semplici, ma di una potenza inaudita.

Perseguitato da subito da una massiccia dose di malasorte, fa appello alla propria volontà feroce per affrontare a muso duro le avversità che mano a mano si frapporranno tra sé e la realizzazione dei suoi sogni.

Lotta Giovanni e sarà costretto a farlo ogni giorno che Dio gli ha concesso. Ad ogni singola perdita, al montare del dolore, alternando momenti di scoramento a scintille di speranza, gli artigli con i quali si aggrappa alla vita si faranno sempre più lunghi.

Ed è proprio la voglia di vita la protagonista indiscussa di questo romanzo.

Sarà che una volta l’aspettativa del tempo a disposizione era molto inferiore rispetto ad oggi, a causa di malattie all’epoca incurabili e di una competizione per la sopravvivenza figlia di una povertà di base, ma davvero Giovanni Antonio Oggiano e gli altri appartenenti alla comunità mostrano un’intensità nel vivere molto lontana dal piattume odierno, borghese ed annoiato.

In un’atmosfera da enorme famiglia allargata, dove sono tutti figli di madre terra e chiunque è legato al vicino di stazzo da un filo di parentela invisibile, passano i giorni ad un ritmo lento e bucolico.

Tra una lite per una parola di troppo e un ballo per onorare un fidanzamento, una cavalcata giocosa insieme ad un compare e gli sguardi timidi degli amori acerbi.

Margherita Altea, nativa di Aggius, è anch’ella figlia di quella terra e ne tratteggia i lineamenti, sia paesaggistici che emotivi, con una sensibilità fuori dal comune.

Ho visto le sensazioni stagliarsi dalle pagine, elevarsi ad altezza del petto e dotarsi di una nitidezza tridimensionale. Ho stretto la mano a Giovanni e provato le sue emozioni.

La rabbia, per i troppi soprusi subiti. La gioia, per il sì della futura sposa. Il dolore, per le continue perdite. L’affetto fraterno nei confronti di Cicco, l’amico di sempre. Il senso di colpa, per le tragedie innescate. La disperazione, per la libertà negata. La speranza, di poterla un dì ritrovare.

Ma ho anche sentito sulle mie gote le carezze morbide e materne delle varie figure femminili, eterne custodi del focolare domestico e mai avare di sorrisi rassicuranti.

Ho visto il mare più azzurro di sempre, il cielo più limpido, avvertito un freddo da far spaccare le labbra e un caldo da far imperlare la fronte.

Ogni singola immagine, ogni singolo volto, buono o cattivo che sia, è ricoperto di una purezza sconosciuta. Di una verità in carne ed ossa.

L’autrice è stata talmente brava nel farmi immergere nel contesto, da doverne uscirne poi, a lettura ultimata, malvolentieri.

Ho provato una sensazione irreale: la nostalgia per un tempo mai vissuto.

Ho deciso di incentrare questa mia recensione sugli aspetti forse meno evidenti, ma, almeno per me, più suggestivi. Ovviamente non dimentico e non sottovaluto il fatto di cronaca e la denuncia per quello che fu e resta ancor oggi il peggiore dei crimini che si possa subire: la sottrazione della propria libertà, da innocente.

Mi restano immagini sbiadite, simili a sogni. Mi restano gli odori, i colori della Gallura. Ancora non so quale sia stato il mio ruolo in questo mondo e non so quale impronta lascerò. Ma di una cosa sono certo: ringrazio Dio di avermi fatto piangere di fronte ai tramonti della mia terra, perché quelle lacrime hanno riempito il mare della mia vita.

Ed io ringrazio te, Giovanni, eroe non più sconosciuto.

E ringrazio l’autrice, Margherita Altea, che di te ha scritto.

Per avermi ricordato, voi due entrambi, che non esiste morte, fin quando si conserva un cuore buono per amare.

E un paio d’ali interne pronte a volare, per non sentirsi mai in prigione.

Paolo Raimondi

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