Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Mario Schiani inedito. Non Ringo

Home / In Primo Piano / Mario Schiani inedito. Non Ringo

Sono un cretino. Sempre stato un cretino. Ho continuamente pensieri da cretino e negli altri suppongo pensieri da cretino che a differenza dei miei saranno, credo, pensieri intelligenti.

I cretini come me fanno presto a ficcarsi nei guai. Hanno occhi, mani e dita, e ogni tanto vanno in libreria. Immaginate la scena: un cretino, e quel cretino sono io, s’aggira tra scaffali ed espositori, fugge con lo sguardo dalla ragazza alla cassa contentandosi di coglierne il profilo gentile, cerca e non trova, si distrae, allunga una mano e con le dita afferra – attenzione! – non un libro ma un taccuino per appunti.

E’ fatta. Ora dovrò chiedermi perché abbia afferrato un taccuino per appunti e la mia testa si affollerà di pensieri da cretino.

Strano, davvero. In un giorno qualunque, dopo cinquantacinque anni di vita trascorsi senza alcuna annotazione, mi immagino improvvisamente eletto al possesso di un taccuino per appunti. Desidero forse sfogliare un taccuino fitto di appunti presi da me? A tanto posso credere. Finirei per mostrarlo a qualcuno, non ultima la ragazza alla cassa. Il taccuino che ho afferrato, per quanto inadatto allo scopo, come scoprirò tra poco, sarebbe dunque la risposta istintiva a questo desiderio. Già, ma rimane il problema che non ho appunti da prendere.

E’ piacevole stare in libreria con un taccuino in mano. Anche senza, se è per questo. Le librerie hanno le pareti imbottite di libri e benché non sia necessario circondare un cretino di pareti imbottite (è un cretino, non un matto), il senso di sicurezza di cui si gioverà ve lo renderà grato.

In libreria le persone sembrano decenti. Si avvicinano pensose agli scaffali, inclinano la testa e leggono il titolo sulla costa di un libro, quindi lo sfilano per accertarsi che il titolo in copertina corrisponda. E’ un gesto da cretini che fanno anche i non cretini. Mi chiedo se sia questo il motivo per cui mi piacciono le librerie.

Capite ora il mio guaio? Sprofondo con facilità in pensieri appiccicosi che mi danno conferma di essere un cretino. Un vero cretino, quale io sono, non si accontenterà di una conferma, ne pretenderà almeno due. E la colpa oggi sarà di questo benedetto taccuino.

Una prima conferma mi viene dal pensiero che per quanto desideri prendere appunti non saprei come prenderli e comunque nessuno si aspetta da me appunti degni di nota. Poi, sfiorando la carta, ne scopro la consistenza da tessuto infeltrito e il taccuino per appunti si rivela taccuino per disegno. La consapevolezza dell’equivoco mi conferma cretino una seconda volta, infliggendomi anche più dolore della prima. Eppure, invece di decidermi ad abbandonare quello che ormai in piena evidenza è un taccuino del tutto inutile per gli appunti che vorrei (ma non potrei) prendere, insisto nel trattenerlo.

Che cosa succede? E’ come se uno stormo di pensieri cretini, mosso da invisibile intesa, lasciasse un tetto in ombra per avventarsi su secondo colmo, più alto e assolato, dal quale strepiterà solidale in nome di una nuova fantasia, tanto folle quanto appagante: quella di riempire un taccuino con forme, colori, panorami, case, gatti, strumenti musicali, commesse gentili.

Dovrei scuotermi, ora, perché sto esagerando: se qualche appunto potrebbe essere alla mia portata, un disegno è fuori discussione. Con le mani ci so fare, intendiamoci, bisogna però che impugnino cacciaviti, chiavi inglesi, martelli: solo così – bang, bang Maxwell’s silver hammer – in quattro e quattr’otto combino qualcosa di buono. Pennelli, matite, tempere? No, grazie. Mi sembra quasi di sentire Paul sghignazzare.

Il taccuino per disegno però è sempre lì, nelle mie mani. Correrei il rischio di passare per cretino una terza volta se di colpo non mi sentissi affrancato, assolto forse, dalla mia stessa stupidità.

A questo punto vorrei spiegarmi bene, anche se prevedo e temo l’annodarsi nella mia testa di una gigantesca matassa di pensieri da cretino.

La carta, con i suoi rilievi circoscritti da piccole ombre, creste che rispondono al tocco dei polpastrelli opponendo una resistenza a suo modo tenace, minuscole nuvole che si sforzano, in uno sbuffo acqueo, di sfuggire alla superficie, mi suggerisce che non c’è nulla da temere: non si è cretini per aver contemplato un taccuino da disegno. Addirittura, nella geografia tortuosa dei fogli pare di scorgere una traccia o, meglio, una promessa: certi disegni li saprei fare perfino io. Sarà questo un taccuino magico? Leggo la fascetta che lo avvolge: “Blocco schizzi per acquerello, formato A5, grammatura 200.”

Sarà perché la parola “grammatura” mi affascina che vado alla cassa e consegno alla ragazza il taccuino da disegno per il quale, ricordiamolo, non ho alcun uso e che solo una concatenazione di pensieri da cretino ha messo nelle mie mani e, soprattutto, ce lo ha fatto restare. Quello, credo, e poi perché è ora di tornare allo scantinato: oggi dobbiamo imparare Lady Madonna e io non ho ancora montato niente.

La ragazza prende il taccuino, passa il codice a barre e mi dice: ti interessa uno di questi kit portatili per acquarello? Non lo sapevo ma mi interessa. E anche una scatola di matite a punta dura e morbida, tutta una gamma completa.

Non lo sapevo ma pago. E’ tardi, lasciamo per dopo i pensieri da cretino. Devo andare allo scantinato: Ringo arriva sempre per primo. E Ringo sono io.

Sono io a sistemare gli strumenti per le prove. E’ un compito delicato e ci tengo molto a svolgerlo bene.

Così, appena arrivo allo scantinato mi dimentico del taccuino e prendo la chitarra di George e la sistemo ritta sul divano, poi quella di John, che va di fronte alla prima, accosto al muro. Il mio set, un vero Black Oyster Pearl, è già pronto.

Sul lato opposto, a chiudere il cerchio, al centro del tappeto rosso, va sistemato con cura il basso di Paul.

Quattro strumenti, quattro amici. E una tana: lo scantinato della mia casa. Va bene: la casa di mia madre.

Da ragazzi decidemmo di costruire la pista elettrica più lunga del paese e Paul – allora naturalmente non si chiamava ancora Paul – ordinò che tutti comprassimo un’autopista 1:24, una grossa scatola di elementi assortiti ciascuno, per poi metterli insieme. Ne venne fuori una pista di trentasei metri, con quattro curve sopraelevate, il ponte e tutto il resto: un serpentone nero che occupava tutto lo scantinato. Per sei mesi non sentimmo altro che il frusciare delle macchinine e le parolacce di quelli che slittavano in curva. Ci venne l’idea di annunciare una gara aperta al pubblico e raccogliemmo venti iscrizioni: Paul si portò a casa una bella coppa di peltro.

Dopo la pista, mettemmo su la discoteca. Un lavoraccio, perché bisognava fare tutto di nascosto. L’idea era di portarci le ragazze. Mia madre non doveva sapere in che cosa stavamo trasformandole la cantina. Per fortuna non scese mai giù. Rimaneva in cima alle scale. Gridava:

Volete l’aranciata? Volete i biscotti?”

No grazie, mamma”.

No, mamma” mi faceva il verso Paul.

Dal garage portammo dentro il divano, la vernice viola e la sfera stroboscopica che, dopo tanti sforzi, riuscii a far girare con i motorini delle macchinine. L’angolo del disc jockey lo sistemammo più o meno dove adesso c’è la batteria; era una pedana protetta da uno schermo, e un finestrino permetteva di guardare in sala.

Quanti pomeriggi ci ho passato! Avevo con me una pila di dischi alta così. Roba sceltissima: Giorgio Moroder, Donna Summer, Ritchie Family, Gino Soccio, e quel lento, Savoir Faire dei Chic, sul quale Paul lanciava l’attacco alla “vittima”.

Io lo spiavo dal finestrino, ma lui se ne accorgeva sempre: “Che cosa hai da guardare?”

Chiusa la discoteca, lo scantinato diventò una sala cinematografica, attrezzato con quattro file di sedie, il divano recuperato dalla discoteca e un proiettore 16 millimetri.

Affittavamo per poche lire copie di film interessanti, artistici, e organizzammo un cineforum. Espressionismo tedesco, Howard Hawks, Nicholas Ray, su fino a Andy Warhol e Joe Dallesandro.

Bisognava sentire che esperto era diventato Paul! Quando parlava di un film, lo faceva come se l’avesse visto fotogramma per fotogramma. “Hai presente la seconda sodomia in Je T’Aime, Moi Non Plus?” diceva. Sbuffava, perché non capivamo niente. Le ragazze continuavano a venire. Mia madre non si affacciava più per i biscotti.

Dopo il film principale, Paul mostrava i suoi lavori da regista. Ne ricordo uno – Spazza – che aveva girato seguendo il netturbino per tutto il giorno. Ce lo mostrò una decina di volte. Era molto artistico.

Con tutte queste attività, immaginerete che nello scantinato avevo parecchio da fare. Dopo la scuola, nei fine settimana, d’estate: sempre. Bisognava sostituire le spazzole delle macchinine, lavare i bicchieri, spolverare la stroboscopica, riconsegnare le pellicole. Una volta dovetti prendere due corriere per trovare la lampadina di ricambio del proiettore. Non mi fermavo un minuto: dipendeva da me, in gran parte, mandare avanti l’attività.

Eppure, prima o poi veniva il giorno in cui, senza preavviso, sorprendendomi nel bel mezzo di un lavoro qualunque, come allineare le sedie, o portar dentro una cassa di aranciata, o ancora cambiare la puntina dello stereo, Paul mi guardava un po’ così, ridendo, la testa inclinata.

Capivo subito che una nuova idea gli frullava per la testa e io, come al solito, ero rimasto indietro. La sua faccia mi prendeva in giro: ancora lì con la puntina, tu; brutto, sudato, stupido: ancora lì con la Fanta, ancora lì con le sedie!

L’ultima volta che mi guardò con quella faccia lì fu quando decise che avremmo dovuto fare i Beatles. Anzi, che avremmo dovuto diventare i Beatles.

C’eravamo io e George, nello scantinato, che da mesi era diventato un laboratorio di informatica. Ci spaccavamo la testa su un lavoro in C++ quando lui entrò con quella precisa espressione.

Dimenticai il lavoro in C++ e stetti ad ascoltarlo: parlava come trasognato della musica dei Beatles, e di come a quella bisognava assolutamente tornare. Solo così, disse, saremmo stati un vero gruppo.

Io e George ci guardammo: i Beatles? Non era roba passata? Certo, tutti conoscevano Yesterday o Yellow Submarine

Ma che Yesterday! Ma che Yellow Submarine! Siete scemi? Io parlo della miglior band di tutti i tempi, quella che ha scritto la musica rock più facile e più difficile di sempre”.

La più facile, aveva detto? O la più difficile? Certe volte era un problema capirlo.

Prendete”.

Consegnò a George un gran libro con la storia dei Beatles, mentre io mi vidi presentare due bacchette. Voleva dire che aveva già scelto per me la parte di Ringo e, per George, quella di George. Aveva visto in noi i ruoli giusti, spiegò. Mostrò a George la foto di una chitarra Gretsh che avrebbe dovuto acquistare “subito, al volo!”, e a me porse un ritaglio con i “set storici” della Ludwig.

John venne informato di essere diventato John non appena ci raggiunse nello scantinato: ricordo la sua aria sorpresa, mentre si sfilava il casco da vigile. Era tutto sudato, aveva i capelli biondastri schiacciati sulla fronte.

Guardatelo, se non sembra John” lo applaudì Paul.

Sembro chi?” chiese lui aggiustandosi la cravatta. Io cercavo di capire se fosse ubriaco o se se la fosse fatta addosso: non si poteva mai sapere.

Sembri John, cretino!” lo investì Paul. “John dei Beatles!”

Mi sa che hai ragione”.

Si era già convinto. Lento e goffo, prese ad atteggiarsi, fingendo di reggere una chitarra e di portare un microfono alla bocca. A me, più che John, parve una brutta caricatura di Elvis, ma non glielo dissi.

Da quel giorno diventammo i Beatles. Anzi, i Beatmen, la cover band dei Beatles più richiesta dell’Alto Varesotto. Per la verità abbiamo dei rivali – i Beatland – ma Paul ci ha spiegato che non sono da prendere sul serio, e Paul non ha mai pensieri da cretino. La differenza, vedete, sta tutta nella “t”. La “t” di Beatmen cade nel bel mezzo del nome, come quella dei Beatles: tre lettere da una parte e tre dall’altra e la “t” che quando la si allunga sulla grancassa sta giusto al centro e crea una bella simmetria. La “t” di Beatland è invece sbilanciata: tre lettere da una parte e quattro dall’altra. “Ma è gente seria, questa?” dice incredulo Paul. E Paul ha ragione.

Senza contare che oggi impariamo Lady Madonna: i Beatland non ce l’hanno e che, secondo Paul, non la impareranno mai.

Tutto è pronto. Sento una macchina che entra nel vialetto: sarà George, che è sempre il primo, dopo di me si intende, perché così ha il tempo di interrogarmi sugli album da solista di Ringo e se sbaglio qualcosa poi lo dice a Paul e mi sfottono. Dopo George arriverà John e infine Paul, ultimo ma mai in ritardo. In ritardo capita che arrivi John, ma solo perché spesso è ubriaco.

Intanto farò meglio a nascondere il taccuino, le matite e gli acquerelli. A voi posso dirlo: prima ho provato a fare un disegno. Uno schizzo della mia batteria, che cos’altro? E’ venuto male, si capisce, ma quando disegnavo – stranissimo – nel cielo nella mia testa non si è presentato neanche un pensiero da cretino. Voglio riprovarci dopo. Non credo sia un tradimento, ma non lo dirò a Paul. Dopo tutto, non è una cosa da Ringo.

E’ una cosa da non-Ringo, ecco. Lasciamola così. Adesso sotto con Lady Madonna.

Mario Schiani

Click to listen highlighted text!