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Paolo Maggis inedito. Il mio analista

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PAOLO MAGGIS:

Ho distrutto tutto.

É stato un atto catartico, liberatorio.

Mentre prendevo a mazzate i televisori provato un benessere fisico. Un benessere che arriva da lontano, il ricordo infantile di quando, alle elementari, il suono della campanella mi liberava dalla prigionia del banco di legno. Avevo bisogno letteralmente di scappare dallo spazio sigillato ed avulso dell’aula, dalla claustrofobia che provavo restando in classe.

Cercavo spazio dove muovermi, correre, stare da solo per allontanarmi dal rumore, da quel ronzio prodotto da un flusso di parole per lo più insignificanti e che non rispondevano quasi mai a nessuna di quel milione di domande che mi affollavano la mente.

Secondo lei é un video violento?

PSICANALISTA: Cosa intende lei con la parola “violento”?

PM: Ho sempre creduto che la violenza si potesse esercitare solo sulle persone o, comunque, su degli esseri viventi. Violenza come gesto, azione o anche parola che limita, violenza quindi come negazione o limitazione della volontà e libertà dell’altro. Da questo punto di vista distruggere degli apparecchi televisivi é tutt’altro che violento.

D’altro canto per violenza generalmente si intende anche un certo tipo di azioni in cui la forza si esprime in maniera clamorosa. Secondo questa visione il mio video é violento: la brutalità del gesto si esprime attraverso l’impeto e la forza. Ma é una violenza che considero positiva e che porta alla pace quindi per me necessaria e che mi libera da una precedente violenza subita per anni.
D’altronde la violenza é legge di natura. Ci sono momenti in cui siamo costretti ad esercitarla per poterci, appunto, liberare da qualcosa che ci opprimeva.

PS: Quindi esisterebbe una violenza positiva? Quella che ci libera di una costrizione per esempio psicologica?

Potrebbe approfondire questo pensiero?

PM: Certamente. La violenza é un elemento naturale che condiziona la vita di ogni essere, ha a che vedere con la sopravvivenza e la difesa del nucleo familiare o del clan. Basta guardare un qualsiasi documentario per capire che la natura é violenta.

E l’uomo lo é come parte di essa.

La differenza consiste nel fatto che se un animale agisce violentemente ed unilateralmente per istinto, l’uomo, grazie alla consapevolezza, ha la possibilità di scegliere una via diversa.

Ad ogni modo la violenza é un elemento ineludibile. E se nella sua visione più negativa, quella dello sfruttamento sfrenato, non rispetta il valore e la natura delle cose, d’altra parte può servire per opporsi a questo stesso atto, difendendo la vita e permettendo la sopravvivenza.

In questo senso può essere utilizzata positivamente, per ristabilire un equilibrio.
Oggi abbiamo bisogno di forza per proteggerci dalla colonizzazione che sta avvenendo dei nostri pensieri. Siamo schiacciati, bombardati assiduamente da messaggi che attraverso strumenti di massa potentissimi (altro che le scritte sui muri del Terzo Reich!) si impongono nelle nostre menti secondo i principi molto semplici e funzionali già espressi da Goebbels: semplificazione, volgarizzazione e orchestrazione.
Davanti a tanta violenza psicologica c’é bisogno di, appunto, una forza non pari bensì superiore per potersi difendere, per difendere il proprio pensiero e la propria umanità. Una ribellione dell’anima ad un sopruso a cui ci stanno sempre di più abituando.

É per questo che non credo nella pace, perché oltre ad essere strutturalmente utopica, miope perché non considera la natura dell’uomo, é l’ennesima forma per convincerci che, se fossimo tutti uguali e se fossimo omologati ad un sistema che impone “certi” valori (decisi da altri altrove e che quasi mai rispettano quelli individuali) vivremmo in un idillio senza dolore e senza più odio. Senza comprendere che l’odio é un sentimento viscerale e che da millenni abita l’uomo, che non si può negare semplicemente censurandolo, ma che bisogna affrontare allo stesso modo con qui dovremmo affrontare l’amore.

Senza inoltre capire che rendere tutti se non uguali simili, é l’ennesima violenza perpetrata sull’io individuale.

Ogni individuo é unico e come tale esige essere differente.

PS: Interessante il concetto della pace come utopia. Vorrebbe approfondire?

PM: Utopia nel senso di aspirazione irrealizzabile.

La pace intesa come assenza di guerra e di conflitto, esiste solo in televisione: la vita é l’esatto opposto.

La pace é una proiezione del nostro desiderio quando pensiamo alla morte e che vorremmo che si potesse finalmente realizzare nel momento della nostra dipartita, nel momento in cui faremo parte di quell’insondabile mistero che aspetta tutti e da cui tanto fuggiamo.

La Pax Eterna é un augurio funebre, a nessun essere vivente auguro di possedere la pace! A meno che questa coincida con il credere che ogni azione che si compie abbia un senso che salva tutto oltre la morte. Ma questo senso può esistere solo in presenza di un Dio che sia origine e destino di quel tutto prima citato, e non tutti siamo pronti a compiere un atto di fede o, io in primis, abbiamo trovato un Dio nel quale riporla.
L’esperienza ci insegna che ci possono essere solo momenti di pace, una meravigliosa calma apparente, un momento di stallo in cui tutto sembra solo respirare. Ma poi basta poco perché la lacerazione, il conflitto che la vita genera torni a far tremare i muscoli e battere il cuore.
Il corpo stesso che siamo non ci “lascia in pace” con i suoi dolori, le sue ferite, i suoi acciacchi; la mente non ci “lascia in pace” con le sue ossessioni, le sue pulsioni i suoi desideri.

Noi non siamo stati fatti per vivere in pace.

Tutto quello che creiamo ed amiamo nasce dalla scoperta del conflitto e dal dolore che esso procura.

Noi abbiamo bisogno di quel dolore per comprendere, per essere consapevoli, per creare.

E poi la pace secondo chi? C’é sempre qualcuno che si erige portatore di pace e che psicoticamente vuole imporre la sua idea di “paradiso terrestre” sugli altri, ma questa, proprio perché nata da una visione sempre e comunque parziale deve essere imposta, ed ogni imposizione comporta un certo grado di violenza. Quindi non si avvera ne mai si avvererà.

PS: Ho letto recentemente, in un libro di Marco Bardazzi, delle parole che mi hanno molto impressionato e che in qualche modo collego a quello di cui lei mi sta parlando in questo momento.

Il chirurgo dott. Enzo Piccinini diceva (75 giorni prima di morire in un incidente stradale)

– Che io “crepi” è una verità, che voi “crepiate” è una verità! La consapevolezza di questo porta già di per sé una serietà nella vita.

(…) È il senso del limite che ti mette di fronte all’altro uomo, immediatamente insieme, anche se non è della tua idea, anche se non capisce, anche se non ti guarda nemmeno. Perché, come lui, anche tu sei bisognoso e, per essere te stesso, anche tu hai bisogno. La malattia, il dolore, la morte sono il segno che più mi ricorda che l’uomo ha un limite e che la sua vita umana non può vivere al di fuori di questa consapevolezza. Sembrerebbe una strana condanna, ma presa sul serio nei rapporti determina immediatamente una apertura e una capacità di rapporto altrimenti impossibili-*.

A me sembra che ciò che vi accomuni di più sia la capacità di stare di fronte al dato reale, senza cercare di piegarlo o di costringerlo dentro uno schema mentale. Lei cosa ne pensa?

PM: Credo che la risposta sia implicita alla domanda stessa: perché nonostante la forma del linguaggio entrambi cerchiamo origine e fine del pensiero nel vissuto.

Viviamo in un’epoca buia, dove il buio é la rappresentazione plastica dell’assenza di esperienza ed, in definitiva, l’assenza di vita.

La vita é di per se rischio.

Ogni volta che si compie una azione esiste un certo margine di rischio che é esattamente quello che la società occidentale contemporanea vuole contenere al massimo così da arginare la sofferenza. Ma la sofferenza, la frattura, la lacerazione, sono squarci nel buio della vita affinché la luce possa penetrare ed illuminarla, sono finestre spalancate su un orizzonte infinito di desiderio e di senso. Anestetizzando questo dolore si addormenta il desiderio e le opere che esso porta a creare.

La creazione diviene puro appagamento di un momento effimero senza orizzonte eterno e desiderio di verità. D’altronde, abolita l’esperienza del dato reale, lo stesso concetto di verità sfuma nell’opinione.

A questo punto qualsiasi informazione può appropriarsi dell’essere umano ridotto a sola mente e pensiero. Ed il pensiero, per quanto logico e profondo, senza un riferimento reale, senza una stella polare che lo guidi, é in grado di scavare nella nostra mente labirinti senza via di uscita.

É per questa ragione che la televisione é un mezzo pericolosissimo, perché crea una esperienza ulteriore, non vissuta e plastificata rispetto a quella reale. Perché ci abitua ad un universo senza odore ne sapore, ad immagini effimere senza carne e presenza, senza violenza, senza ardore, senza meraviglia e senza dolore.

PS: Quindi siamo tornati al perché del gesto simbolico ma forte sino a sembrare violento di spaccare i televisori: il desiderio di riappropriarsi dell’esperienza tutta intera, che appartiene ai nostri cinque sensi (non solo la vista che spesso inganna, tenendo anche conto che quello che vediamo in TV è ciò che chi fa TV vuole farci vedere!). E non solo ai cinque sensi, ma anche a un pensiero che ricorda e collega, e un cuore che soffre insieme al corpo, che ama e si appassiona e desidera…. una ragione come finestra aperta sull’esperienza…

PM: Basterebbe così poco… Basterebbe che tutti staccassimo la spina e tornassimo a vivere la realtà per accorgerci della sua grandezza che esubera qualsiasi sua rappresentazione. Basterebbe che tornassimo a toccare terra per tornare a sentire la vita e con essa la meraviglia dell’esperienza. Basterebbe che smettessimo bulimicamente di trangugiare le infinite pietanze che il menù dell’informazione ci offre per capire che nessuna di esse è nutriente come il semplice gesto di toccare la realtà e che ricollega l’essere umano alla vita.

In fondo basterebbe fermarsi per un attimo e contemplare l’immensità che la realtà ci mette a disposizione per comprendere l’inesauribilità del nostro stesso desiderio.

E cambiare il corso della storia.

*(Marco Bardazzi, Ho fatto tutto per essere felice. Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo.,BUR saggi 2021)

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Foto di Alex Quiñones

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