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Matteo Meschiari. Dispacci dall’Antropocene #8

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«Quali sono gli ingredienti del Romanzo dell’Antropocene? Che differenza c’è tra Romanzo dell’Antropocene e Romanzo nell’Antropocene? Ma soprattutto, il Romanzo dell’Antropocene esiste davvero?». In queste domande, ormai fuori tempo massimo, superate dai fatti, si può riconoscere tutta la “grande cecità” degli scrittori contemporanei, la miopia di una critica che ama epitomi e longform esaustivi, la stanchezza di un’epoca incapace di leggersi nel presente mentre accade. William Butler Yeats, parlando di William Blake, diceva che alcune persone amano così tanto il futuro da restare impigliati nella sua chioma, da rimanere nascosti al proprio tempo. Oggi non ci sono né Yeats né Blake e il futuro è una parola sfortunata, ma chi nel playground della cultura letteraria non vede, non sente e non parla è solo un ennesimo Adulto del Diluvio, un residuo di escapismo e negazione normalizzante, un eterno aperitivo alle sette e mezza di sera. Di questo, e solo di questo parla I figli del diluvio (2020) di Lydia Millet, un romanzo che racconta l’incepparsi della trasmissione generazionale, l’incapacità di vedere sul serio le proprie figlie e i propri figli per il troppo guardarsi nel riflesso di uno specchio anticato, il sostanziale disprezzo iconoclasta di ragazze e ragazzi per chi ha preparato l’Arca e l’ha riempita di cose inutili, come LP nostalgici, bottiglie di buon vino, tappeti, imbarazzanti souvenir del vecchio mondo. L’Arca di Millet, una casa di ricchi scampati alle risacche del collasso ma portatrice di coppie sterili, non è né una metafora del futuro imminente né una stupida distopia dei giovani contro i vecchi, ma è la messa in romanzo dello status quo, è il 2020 americano, europeo, italiano, con la sua incapacità di mollare le priorità di quarantenni e cinquantenni onanisti per concentrarsi su bambini e adolescenti ormai ai bordi della wilderness: «Rafe si divertiva a incendiare cose ma si era limitato alla serra: una pila di bastoni da hockey e mazze da croquet. Ogni tanto bruciava della roba in una radura nel bosco – aveva immolato uno gnomo da giardino. La plastica bruciata aveva prodotto un fumo denso e una puzza disgustosa. Uno dei genitori aveva notato il fumo che saliva sopra un filare di pini ma era rimasto in veranda a godersi un Martini dry». Deridiamo, destrutturiamo, desemantizziamo Greta Thunberg, intanto una Greta Oscura è già pronta nell’Arca-Titanic. Perché, mentre qualcuno scrive romanzi sul climate change sentendosi molto antropocenico, stiamo di fatto rinunciando a formare bambine e bambini alla prossima Resistenza.

Matteo Meschiari

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