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Maurice G. Dantec anteprima. Le radici del male

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Dal 24 Febbraio è in libreria Maurice G. Dantec con Le radici del male, Minimum fax, 2023, p. 641, € 21 con la traduzione di Luigi Bernardi e Sabina Macchiavelli.

Maurice G. Dantec (1959-2016) musicista punk e romanziere francese naturalizzato canadese è stato autore di La sirena rossaBabylon Babies e il diario polemico e filosofico Théâtre des opérations ed è stato uno dei protagonisti della scena letteraria francese a cavallo dei due millenni.

Le radici del male è un romanzo del 1995 ambientato in un futuro prossimo, racconta la storia di un ingegnere che viene incaricato dalla polizia di scovare dei serial killer.

L’eroe è assistito dalla “neuromatrice”, un’intelligenza artificiale che ha contribuito a sviluppare, in grado di accedere a qualsiasi sistema informatico e di creare profili psicologici basati su indizi e fatti relativi a una persona.

In questo romanzo Maurice G. Dantec ha cercato di combinare thriller, poliziesco, fantascienza e un pizzico di metafisica psicoanalitica, con riflessioni filosofiche sulla natura dell’uomo e il suo posto nell’universo.

Per Maurice G. Dantec il ventunesimo secolo non sarà facile se l’umanità non attacca le radici del male che la sta divorando.

Carlo Tortarolo

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Andreas Schaltzmann si è messo ad ammazzare perché il suo stomaco marciva.

Il fatto non era isolato, tutt’altro: da parecchio tempo le onde emesse dagli Alieni gli scombinavano ogni organo. Il suo cervello era sottoposto a un fuoco di fila di radiazioni destinate a trasformare anche lui, come tutti gli altri, in un robot senza coscienza al servizio della macchinazione inumana.

Da anni i nazisti e gli abitanti di Vega si erano installati nel suo quartiere, e lui era sicuro che non si fossero limitati solo a quello. Dappertutto, fino ai più imboscati meandri dello Stato, il complotto delle Creature dello Spazio stendeva le sue ramificazioni distruttrici. Andreas poteva rendersene conto ogni giorno, guardando le trasmissioni televisive. C’era quel presentatore di giochi che complottava contro il Papa e il Primo ministro Balladur; tutto lasciava credere che trasformasse la gente in fantocci.

Si era già rasato la testa, all’epoca, per «sorvegliare le ossa del suo cranio che cambiavano di forma», ma dopo qualche tempo si era messo un cappellino da baseball per proteggersi dalle radiazioni psichiche.

Quel mattino, Andreas si era accorto che il suo stomaco marciva quando il tubetto di dentifricio si era messo a luccicare, prima di trasformarsi in carne morta. Una fanghiglia sanguinolenta dall’odore nauseabondo gli era colata fra le dita, sgusciando dal buco del tappo con un rumore di risucchio gigante. Aveva guardato la sua immagine nello specchio, e aveva visto lo spettacolo di un mucchio di carne scorticata che si era frantumata in una moltitudine di schegge, prima di spargersi sul pavimento.

Da mesi non dormiva senza il suo cappellino, aveva tastato il tessuto privo di colore e impregnato di grasso ripetendo la «formula di protezione», più volte prima di scappare da casa. Aveva vagato per tutta la giornata nel circondario, stava facendo notte quando uscì dall’a86 per inforcare la statale 305, ai confini fra Choisy-le-Roi e Vitry. Lì la statale si chiamava avenue Rouget de Lisle, ma più avanti sapeva che sarebbe entrato in una zona controllata dalle creature di Vega.

C’erano dei campi di concentramento, da quelle parti. Camuffati da cittadine di passaggio ed enormi quartieri residenzial-popolari. I grandi casermoni della zona Balzac, dei Marroniers, di Couzy e della Comune di Parigi. Schaltzmann sapeva bene che si trattava di campi dalla morte lenta, dove si marciva piano piano, e gli capitava di chiedersi quando i detenuti si sarebbero rivoltati per davvero, come a Mauthausen e a Sobisor.

Quella sera, allorché la signora Dussoulier aprì l’ombrello, stava uscendo da casa, sul viale di Stalingrado. Un piccolo rovescio, tipico di fine settembre, cominciava a irrorare l’universo.

Andreas guidava piano, un po’ insonnolito dai barbiturici ma con gli occhi vigili, quando la vide distendere l’antenna. Tutto il viale era infestato da nazisti, da Alieni e da tutte le loro numerose creature, camuffate da umani per poterlo spiare meglio. I nazisti avevano divorato molta gente a Stalingrado e vi avevano perduto parecchi dei loro. Era sempre stata una loro piazzaforte.

 ©Nicolas REITZAUM/Opale/Leemage *** Local Caption *** 31987

Quella donna stava comunicando con i satelliti, l’armada dei satelliti sguinzagliata ogni anno dalla cospirazione stellare. Quella puttana di spia nazista lo aveva localizzato e trasmetteva le informazioni alle squadre incaricate di catturarlo, vivo se possibile, per spedirlo direttamente nell’inferno orbitante, dove la sua carne sarebbe servita da cibo agli Alieni antropofagi.

Andreas sterzò il volante sulla destra e spinse forte sull’acceleratore. La vecchia carretta si impennò mandando un grido di dolore quando si avventò sul marciapiede. La spiona ebbe appena il tempo di girarsi e di spalancare la bocca.

Il suo corpo risuonò come un sacco di patate, quando la colpì. La testa andò incontro al parabrezza, mentre il resto del corpo compiva un salto carpiato verso l’alto. La sua faccia esprimeva la più totale incredulità quando lui la impattò contro la barriera di plexiglas.

Fece splash e il corpo si appiattì sul tettuccio, danza effimera di due grosse gambe piene di varici, fasciate da collant marrone sotto una gonna a fiori coperta di sangue. Un rumore sordo sopra la sua testa. Una massa informe sul marciapiede, nella visuale dello specchietto.

Il parabrezza era parzialmente crepato intorno al punto d’impatto, coperto da una materia rossa e nerastra. Che si mescolava con la pioggia raccolta dai tergicristalli. Ma già l’automobile frantumava la vetrina di una piccola drogheria araba. Un rumore di legna bagnata, fortissimo. Un diluvio di frutta e di verdura si abbatté sul parabrezza: carote, porri, lattuga, mele, uva, pesche e banane, come tesori di un corno dell’abbondanza santificanti il suo gesto.

Andreas scese dal marciapiede venti metri più avanti e spinse a fondo sull’acceleratore, bruciò il semaforo giallo e lasciò una scia vegetale alle sue spalle.

Il droghiere arabo ebbe appena il tempo di accorrere dal fondo del negozio per constatare i danni e veder sparire una «vettura verde, o marrone, tipo break» proprio alla fine della lunga linea diritta che costeggia i magazzini blu e arancio di Foir’Fouille. Il semaforo era verde. L’auto girò a est, in direzione della pista di pattinaggio.

Geneviève Dussoulier morì al suo arrivo all’ospedale, il 22 settembre 1993, alle ore venti e quindici minuti.

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Maurice G. Dantec Le radici del male

Traduzione di Luigi Bernardi e Sabina Macchiavelli

© minimum fax, 2023

Tutti i diritti riservati

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