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Elena Mearini anteprima. Corpo a corpo

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Parla di boxe Corpo a corpo (pagg. 128, € 14,00), ultimo romanzo di Elena Mearini, in uscita oggi per Arkadia editore. Ma è uno sport di contatto che, contraddicendo in parte il titolo, nelle pagine dell’autrice lombarda si sviluppa mente a mente.

Il dialogo serrato che ingaggia il protagonista Stefano, professore di Italiano nei Licei ed ex pugile, è fra lui e una presenza fisica, ma anche fra lui e due fantasmatiche presenze femminili.

A complicare e stratificare i livelli di lettura, le due giovani donne sono evocazione una dell’altra, una parla dell’altra attraverso le pagine di quello che è il suo diario personale, un quaderno blu.

Una è Marta, compagna di Stefano, l’altra è Ada, sua sorella.

Entrambe sono uscite dal mondo dei vivi nello stesso identico modo. In precedenza, entrambe sono state avviate alla “nobile arte” da Stefano. A sua volta, da giovane Stefano è stato frequentatore della palestra gestita da Marco, nell’hinterland milanese.

È lì che cerca rifugio per tirare le fila di quanto gli è accaduto, di quanto ha commesso. Per diciotto ore interrogherà se stesso attraverso le pagine del quaderno di Marta e le riflessioni sue e di Mario.

L’affresco che Mearini crea nei dodici round del romanzo, aperti da un KO (tanti sono i capitoli di Corpo a corpo), mette in luce quanta distruttività si incisti nei legami affettivi e quanto le nostre scelte, a volte, siano una dichiarazione di impotenza a cambiare strada. Perché convinti di essere nel giusto, incapaci di vedere.

Mearini, utilizzando una costruzione narrativa che potremmo definire antirealistica (molto si deve a una lingua capace di prendere e rielaborare dalla poesia), porta la boxe a diventare simbolo dello scontro fra esseri umani e la vita che si sono edificati.

D’altro canto è anche l’elemento di quella libertà che la donna deve prendersi per non restare schiacciata da quello che Marta e Ada subiscono: l’obbligo a una “perfezione omologante” richiesto dalla società. Un obbligo che devasta l’autonomia decisionale e non permettere di vivere.

Sergio Rotino

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Mario si alza, apre l’armadio che sta sopra la panca, prende una serie di guantoni e li appoggia a terra.

«Ti sei messo a studiare, sei un professore, bravo. E questa Marta te la sei portata dal banco di scuola al materasso. Non devi rispondermi, adesso. Immagino le tue mosse, per capire che tipo di incontro hai fatto.» Glielo vorrei dire che non sono uno di quelli che usano la cattedra per farci sdraiare sopra le ragazzine, che non ho mai abusato del mio ruolo e detesto chi lo fa, in ogni campo, a qualunque livello. Ma sarebbe un’offesa, lui queste cose le sa già, di me conosce l’origine, intuisce il verso del primo pianto e il soffio del primo respiro.

 

Lo guardo. «Un incontro truccato, Mario, dove il pugno è bugia e ogni round un tradimento, questo ho fatto.» Lui prende un paio di guantoni, solleva il velcro che chiude i polsi.

«Hanno bisogno d’aria, dobbiamo aprirli tutti, forza, dovresti ricordarti, da ragazzino mi aiutavi sempre.» Faccio ciò che mi chiede, muovo le mani in silenzio, lo strappo del velcro parla al posto mio, racconta il distacco che mi porto dentro. Non so più chi sono, ammesso che l’abbia mai avuto presente. Il professore ha smesso di vivere assieme a Marta, anche lui si è fatto il volo dalla finestra e lo schianto sull’asfalto. Allargo il guantone, butto un occhio al suo interno, c’è lo spazio della mano che manca. Ecco, è così che mi sento, con dentro il vuoto dell’uomo che manca. Mario va sul retro, mi chiama: «Vieni qui a sistemare i guantoni, che a incasinarti la testa hai sempre tempo. Vanno appesi al filo, con la molletta ai polsi, dovresti saperlo.»

«Sì, ricordo bene come si fa, non l’ho dimenticato, Mario.»

«Bene, bravo, lo vedi? Resta sempre qualcosa di certo.»

Torniamo alla panca dopo avere appeso gli ultimi guantoni ed esserci scambiati lo sguardo dell’intesa disperata, quello che accomuna gli occhi di due incamminati nel deserto, quando la notte cala. Possiamo solo arrangiare un riparo e fare sosta, adesso. Continuo a mordermi il labbro, sento il bruciore che aumenta, la pelle che cede, a breve arriverà il taglio. Mario solleva la mano, mi mostra il pugno chiuso. «Se vuoi te lo spacco io quel labbro, così risparmi tempo.»

Ha sempre avuto il dono della schiettezza lui.

«Ho paura, Mario, e poi ho lo schifo, capisci, quando ti senti addosso l’odore della colpa non puoi che stare dentro una nausea continua, e vorresti farti fuori al più presto, disfarti di te e di tutto il passato a cui devi rispondere, e di tutto il presente che continua a chiedere, incessante, attimo dopo attimo. Ogni secondo si porta appresso un perché e me lo sbatte qui, davanti agli occhi.»

«Sei qua apposta, se non ho capito male. Sei qua per trovarla questa risposta. Io aspetto, con te. Altro non posso fare.»

«E se non arrivasse, Mario, se il tempo che mi resta fosse un interrogativo puntato alla tempia?»

«Allora, augurati che qualcuno prema il grilletto, figlio mio. Dipende da te, se t’importa ancora del respiro, allora la trovi. A me è capitato, ho dovuto trovare la risposta per salvare due vite, la mia e quella di una donna. È una questione che non ho mai detto a nessuno, questa, il valore ce l’ha solo per me, ma voglio che tu sappia. Servono poche parole, quindi quando smetto tu non domandare altro. Eri forse appena nato, fresco di mondo, quando io la incontrai. Il mio opposto, lei una grazia, io una dannazione. Ci univa quel mistero che spinge il sole a sorgere ogni giorno, nonostante il disastro che gli si presenta sotto. Avrei potuto tirare in piedi un mondo, con lei, forse anche un universo intero. Invece me ne andai, la lasciai così, al termine di una notte, senza un fiato, come se ne vanno i fantasmi. Perché io ero fatto per buttare giù, mandare al tappeto, mettere a segno le cadute. Altro che tirare in piedi mondi, lì avrei fallito. Lo sapevo fin dall’inizio. Ma serviva il coraggio del male duro, per ascoltare quello che già sapevo. Un male di cane morto per fame.» Mario si tocca le mani, fa pressione sui palmi con le dita, come il pugile che sposta il dolore dei pugni dopo essersi levato i guantoni.

È strano vederlo così, esposto tanto da apparire fuori fuoco, lui che si è sempre tutelato i confini marcandone i bordi con tratto spesso. Succede quando si parla d’amore, quello assoluto. I contorni si spezzano, la forma si rompe e tu non puoi fare altro che cedere. Diventi irreparabile, subisci il danno permanente che salva o condanna a vita, dipende da come si mettono le cose, dalle mosse della sorte e da quelle dell’altro.

Mi avvicino a lui, gli tocco la spalla.

«Mario, io sono rimasto, quando invece avrei dovuto andarmene. Non ho avuto la forza di scendere dal ring.»

Si volta, tiene sempre lo sguardo basso, stavolta fissa il cuoio delle mie scarpe, anziché la tela delle sue.

«Ci sono incontri che vanno abbandonati, sono fatti apposta, figlio mio. Giù i paradenti, via i guantoni e poi dritto verso gli spogliatoi, a testa alta, sempre. Pure con la morte in pancia.»

Riprendo il diario, io la morte in pancia l’avverto, ma so che è diversa da quella che lui intende, si distinguono nel colore. La sua è bianca, la mia nera. Una gli occhi te li lascia, l’altra invece no, te li strappa via.

«Mario, io non vedo la strada, non c’è più, non so dove andare, capisci. Io non lo so.»

Si sposta di qualche centimetro verso sinistra, solleva gli occhi, guarda l’armadietto che sta sopra le nostre teste.

«Intanto alzati, apri questo affare e prendi le fasce per le mani, che vanno lavate e messe a stendere. Io ti ascolto ma qui ci sono i lavori di ogni giorno. Se li porti avanti, la vita non si ferma, in qualche modo gira.»

Recupero le fasce sparse nell’armadietto, le appoggio sulla panca, nel mezzo tra noi due. A guardarle, sembrano un accumulo di sentieri tortuosi, di quelli che mettono il passo a dura prova.

«Vanno separate, adesso le tiriamo un po’, una alla volta, così le pieghe si allargano e poi è più facile lavarle.»

Restiamo in silenzio, mentre le mani lavorano e fanno in modo che i sentieri tortuosi diventino strade dritte e asfaltate. Adesso le fasce sono tutte in linea, una accanto all’altra. Ci vuole un catino per metterle a bagno, chiedo dove posso trovarlo. Lui scuote la testa, indica il diario. «Dopo, si fa dopo, con l’acqua e il sapone. Ora vai avanti, ché il giorno ha le gambe svelte.»

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