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Mauro Corona anteprima. Quattro stagioni per vivere

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Tra il Jack London di “Prepararsi un fuoco” e “Il richiamo della foresta” e il primo Guccini romanziere (quello di “Questo sangue che impasta la terra”, a quattro mani con Loriano Machiavelli ) “Quattro stagioni per vivere”,  il romanzo di Mauro Corona da oggi in libreria per Mondadori,  è una sinfonia del tempo breve e al tempo stesso una partitura di inchiostro e ghiaccio, di fuoco e di lettere che si perdono nel tempo che ancora non abbiamo vissuto. Una storia ancestrale, ad oggi il miglior romanzo di Mauro Corona, che ci racconta un capitano Achab che insegue Moby Dick con ancora più crudeltà: perché qui cacciatori e cacciati sono uomini, uomini di montagna, che il cuore duro dovrebbe infrangersi nella Natura e invece sono come accecati da una Natura che ne fa riemergere i luoghi più oscuri, quelli che fanno dimenticare la fratellanza di essere miracolosamente vivi.
Come in “Prepararsi un fuoco” di Jack London – il più grande racconto metafora sulla scrittura (un uomo è solo tra i ghiacci del Klundike e deve accendere un fuoco ma se lo accenderà rischia con il calore di addormentarsi ma quel fuoco può accenderlo perché altri dispersi nella tormenta ne vedano la luce e vedendola si incontrino e raccontandosi delle storie possano attraversare la notte che è buia ed assassina, come la vita) – Corona ci racconta il potere della parola malgrado la distesa di ghiaccio del nostro vivere quotidiano sembri troppo spessa per essere infranta. Come fa lo stesso Corona in questo romanzo che è la prova letteraria dello scrittore dopo tanta narrativa: un tentativo di letteratura che è riuscito. Come su un crinale di neve marmorea Corona gioca in equilibrio tra seduzione narrativa e potere letterario e il secondo elemento predomina, appunto, come fosse l’ultima prova, l’ultimo sforzo, l’ultimo miglio per un romanzo che rimane non più inciso nella corteccia della vita dell’autore ma scavata dentro ognuno di noi. Ed è quest’ultimo il fine della Letteratura.


Gian Paolo Serino

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Foto: Claudio Sforza

L’ultima notte al Tamaria capitò un fatto incredibile. Era già tardi, la luna allontanandosi aveva tolto chiarore alla spelonca, il cane dormiva, il fuoco andava a tutta. Ascoltavo il mitragliare dei rami di larice, secchi e duri come ossi, e i ceppi di carpino nero tolti alle valanghe. Il fumo, spinto dalla turbina del risucchio, filava all’esterno a profumare il buio e dare un cuscino alla notte assopita. Tutto aiutava, nel gelo dell’inverno, a sostenere due esseri viventi raccolti con affetto dal ventre materno di una spelonca. Mai avrei immaginato di vivere come i primitivi uomini delle caverne. Invece era successo, e cominciava anche a piacermi. Allora, come dicevo, stavo godendo il fuoco e il crepitio di rami e ceppi quando Papo alzò la testa e ringhiò. Fuori sentiva qualcuno, fiutava presenza, forse un animale di passaggio. Strano, pensai, con tutto quel fumo le bestie stanno lontane. Guardai verso l’entrata illuminata dalle fiamme e rimasi di sasso.

Al centro apparve un camoscio. Immobile, ritto sulle gambe, mi fissava. Non temeva le presenze, né me, né il cane, né il fuoco. Men che meno il fumo che, seppur alto nella volta, gli andava contro. Pareva imbalsamato. Ne ho uccisi di camosci, più ancora visti, ma uno così mai. Era imponente. Portava un trofeo doppio del normale e il pennacchio sulla schiena alto una spanna. Al centro, questo pennacchio esibiva un ciuffo bianco come neve. Il tutto si muoveva come il fiato di un leggero vento. L’animale invece pareva scolpito nel marmo. Stava di fronte, e mi fissava severo come un rimprovero. Vedevo il pennacchio sporgere ai lati tanto era lungo. Accanto a me, per sicurezza, tenevo i fucili. Afferrai la doppietta a pallettoni e gliela puntai per capirne la reazione. Niente, non si spostava. Dopo qualche minuto si mise a raspare la pietra con la zampa destra, continuando a fissarmi. Cominciai ad avere paura. Mi pareva che dallo zoccolo uscissero scintille. Era, lo so, un’impressione ma vedevo scintille. Allora tolsi la sicura dallo schioppo, convinto fosse il diavolo venuto a prendermi e, sebben non credo troppo, mi feci il segno di croce. Dopo il primo ringhio, Papo restò in silenzio fissando anche lui il maestoso animale. Confesso: lo avrei ucciso volentieri. Esibire in paese un simile esemplare avrebbe dato gloria eterna a chiunque. Ma qualcosa mi diceva no, fermati. Non era possibile che un camoscio si comportasse così. Forse stavo male, avevo le visioni. Toccai il viso per sentire la febbre, ma non c’era. E lui stava lì, immobile. Pensai fosse impazzito di vecchiaia, anche loro consumano il cervello e non sanno più cosa fanno. L’unico modo per farlo sloggiare era esplodere un colpo verso l’esterno, senza colpirlo. E così feci. Puntai alto sull’entrata, verso il cielo cupo della notte invernale. Tirai di prima canna. Sembrò un colpo di cannone. La grotta tremò assieme alla montagna. Seppur avezzo agli spari, Papo scattò in piedi. Le frasche sul bordo scricchiolarono, i rami di fuori oscillarono, uno cadde tranciato di netto. Tutto si mosse sotto il colpo, solo il camoscio non fece una piega. Seguitava a fissarmi e, devo dire, non aveva occhi cattivi. Il fragore dello sparo non lo aveva scosso minimamente. Era un camoscio quello, o qualcos’altro?, mi chiedevo sbalordito e spaventato. All’improvviso l’animale grattò due volte con la zampa, fece un balzo e sparì nella notte rosicchiata dal silenzio. Non fui capace di chiudere occhio. Papo si addormentò di nuovo, io no. Decisi lì per lì, che l’indomani sarei calato in paese, passando a trovare Venaria l’eremita nel suo antro sotto la strada maestra.

In un punto dentro quel grande buco, profondo e tetro, avevo nascosto oggetti che mi sarebbero serviti di lì a poco. I Legnole avevano fatto saltare il sentiero sulla cresta di pietra, non dovevano passarla liscia. Come ho detto, dovevo distruggere qualcosa che li rappresentasse. Dopo quei giorni nella grotta di Bedin Alta, era tempo di agire.

Dovevo andare in paese. Non prima di aver studiato le intenzioni del tempo, il giro delle nuvole e il colore del cielo. Non volevo trovarmi in paese che si mettesse a nevicare. Tornare in quota sarebbe diventato difficile, faticoso e rischioso, se non impossibile. Restare nel villaggio era ancora peggio. Troppe spie, troppa gente che mi odiava, nemici, delatori, vigliacchi. I gemelli avrebbero avuto partita facile. Dovevo risalire in montagna, una volta concluso il progetto. E avevo anche un’idea. Sarei andato a nascondermi nell’antro di Bosconero, sotto la parete settentrionale del monte Duranno. Un bel posto per stare in pace e tranquilli. Luogo mitico, leggendario ricovero di bracconieri, contrabbandieri e fuggitivi, l’antro di Bosconero faceva il paio con quello della Rizea, circa un’ora più a ovest. Oltre ai soliti viveri raccolti in paese, avrei cacciato cervi e camosci che laggiù abbondavano. Laggiù c’era di tutto, anche se era difficile arrivarvi. La carne che già avevo l’avrei appesa sotto la volta del Tamaria. Il freddo la conservava integra, l’altezza la proteggeva dai predatori a quattro zampe, il bidone dai rapaci con le ali. Fondamentali le ciaspe per la neve fresca, le grappelle per quella di marmo.

Ma era presto per i progetti, prima dovevo scendere a sistemare i Legnole. Quando al mattino puntai a valle vidi lontano, verso grandi pianure, le nebbie azzurrine del bel tempo. Non sapevo che giorno fosse, da tanto evitavo di consultare il logoro calendario che tenevo in fondo a uno dei sacchi. Ormai non mi interessava più il dettaglio di ore, giorni, mesi. E forse nemmeno degli anni. Però sapevo che giunto nel paese dei cattivi, l’amico me lo avrebbe detto.

Perché glielo avrei chiesto. Quando si torna nella civiltà si cercano di nuovo informazioni inutili. Infatti fu così. Rispose che eravamo ai primi di febbraio. Lasciai per due giorni Papo al mio amico e mi detti da fare.

Ma è meglio che racconti la storia per ordine.


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