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Omar Di Monopoli. Brucia l’aria

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Terzo autore pugliese che leggo nel giro di pochi mesi: dopo le disgrazie del Giuda “spasulato” di Graziano Gala e le anime tormentate di Andrea Donaera, oggi ho terminato l’ultimo romanzo di Omar Di Monopoli, “Brucia l’aria”, edito da Feltrinelli. Un’opera che contiene il fuoco già nel titolo e in cui ogni cosa, a partire dalla lingua e dalla splendida copertina, sembra attraversata da una densa coltre di fumo e caligine.

Siamo di nuovo in Puglia, terra d’origine dell’autore bolognese, in un Salento lontano dalle patinature turistiche, dalle spiaggette stipate di famiglie, da quel mare limpido che reclama a forza la movida estiva. No, nulla di tutto ciò. La Puglia di Omar è un limbo di terra che affiora a fatica dalla nube di scarico di un’autobotte che fiancheggia bestemmiando a tavoletta una fila di ulivi rinsecchiti. Lingua e terra. Elementi cardine di una cifra stilistica che ha ormai consacrato la penna dell’autore come una delle più riconoscibili nel panorama editoriale odierno. 

Partendo dal dialetto d’origine, Di Monopoli crea una voce riconoscibile, espressionista ed estremamente ricercata (soprattutto nelle parti descrittive), modellando un contesto letterario in cui ogni frase e ogni dialogo è parte essenziale di un topos narrativo che fa dell’atmosfera e dell’ambiente (naturale e urbano), elementi essenziali all’opera. La scrittura di Omar è sempre densa, stratificata, l’uso di termini desueti e ricercati rimanda a una cura maniacale che al lettore richiede la massima, costante, attenzione per decodificare al meglio l’immane lavoro di cesello linguistico dedicato a ogni singolo paragrafo. In questo modo la penna di Di Monopoli non concede sconti: la si ama o la si odia, difficile scendere a compromessi mentre la prosa vola altissima nel dipingere le strade sterrate di Languore, mostrandoci panorami costieri in cui la natura è desolazione e meraviglia al tempo stesso, dove l’azzurro cristallino si scontra con le montagne di rifiuti scaricati abusivamente, in un continuo saliscendi tra meraviglia e minaccia costante, oscura, sepolta sotto uno strato di cenere che è miccia e metafora della narrazione. 

Le fiamme. La cenere. Il gigantesco incendio che ha distrutto buona parte del litorale di Torre Languorina. Un inspiegabile gesto vandalico che si è ribellato al suo artefice. Il fuoco, elemento indomabile che ritornerà più volte, lungo la narrazione. Giudice impietoso dello scontro tra la famiglia Caraglia, protagonista principale della storia e Precamuerti, un vecchio boss della Sacra Corona Unita che tornerà dopo anni di latitanza, per ristabilire il marcio equilibrio di una comunità che si regge su pilastri di corruzione e traffici clandestini. Contrabbando di sigarette, lotte fra cani, produzione di metanfetamina… una Breaking Bad nostrana e una coppia di fratelli dal carattere agli antipodi, sulla cui testa grava la figura assente di un padre odiato da gran parte della comunità. Rocco e Gaetano, luci e ombre di ragazzi che cercano a loro modo di sopravvivere all’infamia, una famiglia piegata dal lutto la cui madre malata si regge sulle spalle di Nunzia, ex-compagna di Rocco, oggi madre e moglie di un altro uomo ma ancora profondamente legata alla figura di quel ragazzo turbolento dalla mano facile e il carattere instabile.

Poco più di una manciata di personaggi a reggere una trama che si porta appresso il sapore di una tragedia greca, corollario di un romanzo per palati esigenti, questo Brucia l’aria, la cui colonna vertebrale va rintracciata tutta nello stile, nella ricerca, nella caratterizzazione di protagonisti credibili e spigolosi quanto il dialetto che li ha partoriti. Demoni carichi d’odio, alla continua ricerca di un riscatto da una vita che li costringe a farsi bestie e lottare con i denti e con le unghie, a scorticarsi le mani e bruciarsi i polmoni, lungo strade di polvere, dove la speranza è sepolta sotto contrasti di cenere e sangue.

Stefano Bonazzi

Omar Di Monopoli

Brucia l’aria

ed. Feltrinelli

 

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