Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Piero Balzoni. Vita degli anfibi

Home / Recensioni / Piero Balzoni. Vita degli anfibi

L’acqua come elemento principale. Ritorna, ciclicamente, lungo tutta la narrazione. Un’acqua di lago che a volte è cristallina, cangiante, cosparsa di lucori cisposi che restano impressi nella retina dei ricordi e poi un’altro tipo di acqua, quella dei fondali, più torbida, inquinata dalla fanghiglia, un rifugio per creature in divenire, cattedrale di segreti e corridoi che si perdono nel buio.

È in questo punto di mezzo che mi piace immaginare la genesi di questa storia.

Piero Balzoni lavora per scenari e suggestioni, lo dichiara lui stesso, in un’intervista uscita di recente “il lavoro di partenza è sempre dalle immagini, dunque nel caso di questo romanzo da quella di una bambina che procede aprendosi una strada, un varco attraverso un canneto” e si percepisce forte, questa sua predisposizione alla figurazione, perché di immagini che restano impresse, a lettura conclusa, la mente ne è colma.

Piuttosto che di trama qui vorrei parlare di ossessioni, quelle della protagonista, in primis, ragazza senza nome, che non riesce a trovare pace per quella sparizione assurda che le ha distrutto l’esistenza. “Un uomo non scompare così da solo mentre sta in vacanza”, lo pensano gli ispettori, lo pensano tutti, perché è un pensiero logico, razionale. Eppure è successo, come un giro di altalena che ha perso il controllo ed è salito troppo in alto.

Un momento prima tuo padre è nella tua vita, con i pennarelli colorati nel taschino della camicia, gli stivali con la fibbia ai piedi, il viso coperto di calce, a raccontare storie di rane e pesci che ridono, un momento dopo non c’è più e le risate che ti restano sono solo quelle di tua madre. Sola, di notte, in una casa vuota che ha perso tutti i suoi colori.

«Mamma stava accovacciata dietro all’ultimo mobile. I capelli legati sulla testa mettevano in mostra il suo collo sottile, la nuca scavata col cucchiaino. Diceva che il tarlo era tornato. La nostra formica gigante. La notte aveva sentito rumori tra gli scaffali. Dentro ci viveva qualcosa.»

Ci saranno delle ricerche, certo, le indagini di rito che lo stato deve togliersi dalla coscienza ma il lago trattiene, il lago nasconde e le teorie si accumulano nei discorsi dei paesani se attorno al fattaccio le case si contano sulle dita di una mano. Ma di indagini e commissari non è fatto questo testo, no, qui l’intento dell’autore è ben altro.

Indagare un’assenza attraverso coloro che restano.

Presupposto che riscontrai in un altro libro, estremamente apprezzato, di qualche anno fa. Penso a quel Lanny (Sellerio), in cui il giovane scomparso ritrovava il suo posto nel nucleo familiare attraverso le memorie di un padre, una madre e un amico pazzoide, ritrovatisi vicini e inconsolabili nella voragine dell’inspiegabile, mancanza. Anche in quel caso si cercava di dar forma al ricordo attraverso le vite dei rimasti ma, se nel romanzo di Max Porter, poesia e fiaba si fondevano nella lingua per formare una cornice barocca capace di traslare la cronaca in altro, nel romanzo di Balzoni non si sente la necessità di affidarsi a nessun artificio narrativo. L’autore resta con i piedi ben piantati nella realtà. Giorni che si susseguono attraverso una cortina che uniforma i contrasti e attutisce senza alleviare, la scomparsa non porta a nessuna vicinanza semmai, al contrario, in questa storia ogni personaggio pare allontanarsi lentamente, prigioniero della propria teca di vetro e l’incapacità di lasciar andare la figura paterna, nella protagonista, trae forza da un accanimento comprensibile e condivisibile che, ahimé, non sembra perdere di forza con il passare degli anni.

«Da adulta mi vergognavo a indossare il suo maglione marrone, a cercare ancora mio padre che era finito chissà dove. Non si sapeva. Però si sapeva che non andava più cercato, che cercarlo era una cosa da bambini.»

La sua perdita è una frattura che si forma nell’infanzia per continuare a erodere, espandersi e frantumare gli argini di una vita intera. La casa si svuota, i mobili tutti in cortile, sua madre non sa che fare, dice che il tarlo è tornato a mangiarsi le cose e loro non riusciranno a scovarlo. È una vita consumata nell’incubo di una risoluzione che non giunge mai, un continuo arrovellarsi tra ipotesi e ricerche, in un moto circolare che riporta inevitabilmente al luogo d’origine, anche dopo una vita schiacciata a forza tra la volontà di sopravvivere e quella di mitizzare un fantasma.

Subentra esplicita la metafora dell’anfibio da cui anche il titolo, a suddividere il testo nelle tre fasi del suo ciclo vitale che da larva muta in girino per poi raggiungere lo stadio adulto, finalmente in grado di abbandonare il rifugio che l’ha accolto ma restando comunque legato al grembo acquatico che l’ha generato.

«Trascorrevo la mattina sulla sponda del lago, dove l’acqua era più chiara e il fondale un letto di sassi verdi e marroni. Adesso vedevo dappertutto gente che rideva. Rideva per i motivi più incredibili, per le cose serie e per quelle stupide. Le bambole sedute in cerchio sulla riva mi guardavano con i loro volti da streghe tradite, erano vive nei loro corpi di pezza e nel loro sorriso eterno ridevano di me. Il cielo rideva, i pesci ridevano.»

Colei che ha perso non vuol più lasciar andare e in questo stillicidio quotidiano la sua vita rischia di ridursi a una vacua attesa attorno ai pochi perni di speranza rimasti: il lago, il caseificio e le preghiere notturne rivolte a quel Dio del lago sommerso che da piccola la respinse, scagliandole addosso la sua corrente.

Se da una casa deserta e una madre assente non si può trarre conforto, ecco quindi che diventa indispensabile affidarsi ad altri rituali: incartare nella carta di giornale ogni oggetto appartenente al padre, conservarlo con cura fino al ritorno, riconoscerne l’odore anche sulla pelle di altri uomini, Domenico, Giulio, gli unici in grado di penetrare con stralci di vita paesana nella sua vita di lavoro e reclusione.

Tutto è funzionale a proteggersi, illudendosi che la rivelazione, una qualsiasi rivelazione, giungerà a breve e in questa continua fuga dall’evidenza, il lettore diventa complice emotivo, incapace di lasciare le redini di una narrazione che assorbe e travolge, pur consapevole che tale dipendenza non potrà che portare all’inevitabile crisi.

Vita degli anfibi è un flusso continuo, compatto, a tratti ipnotico. Leggerlo è come immergersi nell’acqua del lago da cui tutto prende vita, occorre lasciarsi trasportare. Spariscono le caporali, i dialoghi si fondono alle descrizioni, le azioni si alternano alle riflessioni, spesso impeccabili, sempre funzionali, affreschi di luce eretti sulle macerie di edifici silenziosi, invasi da una natura affamata e inarrestabile che si ciba di ogni parola superflua, lasciando trasparire un meticoloso lavoro di prosa.

Non c’è rifugio più pericoloso della menzogna, pare volerci suggerire l’autore con questa sua opera dai contorni soffusi e le membra che urlano riscatto. Necessario quindi tornare a immergersi, prender parte tutti quanti alla metamorfosi facendosi strada nei ricordi fino al luogo d’origine, rovistando tra scatole impolverate e tacche sui muri, nel doloroso tentativo di riuscire finalmente ad accettare l’idea che, se una fotografia non può dire quasi niente di una persona, a volte nemmeno una vita intera è sufficiente.

Stefano Bonazzi

#

Vita degli anfibi

Piero Balzoni

Alter Ego

17,00 euro — 208 pagine

Click to listen highlighted text!