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Pierre Jourde anteprima. L’ora e l’ombra

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Il protagonista di L’ora e l’ombra, romanzo di Pierre Jourde in uscita da Prehistorica con la traduzione di Gabriella Bosco, fa ritorno a Saint-Savin, località della costa atlantica e luogo della sua infanzia, e incontra la donna che un tempo era stata la bambina di cui si era innamorato estate dopo estate tanti anni prima. È da questo punto che prende il via una narrazione incentrata sull’amore ma anche su temi come l’ossessione, la gelosia e il doppio, costruita anche come un poderoso omaggio a Marcel Proust. Jourde esplora in profondità i sentimenti, che in questo caso prendono la forma di una gelosia furiosa e un anelito al possesso che va oltre lo spazio e il tempo del qui e adesso. E nel farlo sospinge il protagonista in una fitta rete di coincidenze e di misteri, di incontri e di ricordi, grazie a una costruzione polifonica giocata proustianamente sulla memoria e sulla rievocazione, in un continuo slittamento tra immagini mnemoniche, luoghi e paesaggio, sensazioni.

Tutto il mare era il sesso di Sylvie, i suoi seni. Guardarlo, in un punto qualunque, equivaleva a contemplare il corpo nudo di Sylvie, che pure vi si era nascosto”.

Paolo Melissi

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«Ricordi, ti ho già spiegato com’ero tornato la prima volta. Ma ti avevo detto troppo poco, non tanto da farti capire il significato di quel ritorno, né i veri motivi.

Tutto è cominciato una notte soffocante di giugno. In auto, sulla tangenziale. Che ora era? Non lo so più di preciso. Non molto tardi, non dovevano essere ancora le dieci. Io e lei avevamo passato l’inizio della serata a chiacchierare, nel bar dove ci eravamo trovati un po’ per caso. Poi avevamo preso la mia auto. Non so come mai mi è tornato in mente il nome di Saint-Savin. Pronunciando ad alta voce quelle sillabe che sembravano imporre il mormorio, le trovai irreali.

Non ho mai conosciuto nessuno che dimentichi come me. I volti e gli episodi della mia vita passata, per breve che sia, hanno un’incredibile tendenza a scomparire. Non ricordavo più di aver vissuto alcune stagioni della mia esistenza immerso in un’atmosfera di magia, dentro a ciò che quel mormorio significava.

All’epoca, era da molto tempo che non andavo a Saint-Sauvin. Non pensavo neanche più a quel luogo che pure nella mia infanzia aveva contato talmente tanto che le immagini delle sue lunghe spiagge avevano finito per incarnare un’eternità da cui l’adolescenza mi aveva esiliato.

Il mondo in cui vivevo non aveva più niente a che vedere con l’incanto. Ogni sorta di magia ne era così radicalmente scomparsa che era di sicuro quella la ragione per cui neppure il ricordo poteva più affacciarsi alla mia mente. Avevo appena compiuto ventisei anni e stavo finendo il tirocinio a Medicina in una di quelle grandi facoltà che erano state frettolosamente costruite in periferia. Frequentavo cinque giorni a settimana un blocco fetido di cemento per aver poi accesso alle aule magne dei corsi di specializzazione. Perché Medicina? Non lo so più. Avrebbe potuto essere Legge. Non avevo vocazioni specifiche. Prima di scegliere quella strada, mi facevo un’idea letteraria della professione medica. Il corpo degli uomini mi appariva come un vecchio museo buio. Mi aspettavo di venir guidato in sale misteriose, iniziato a segreti. Al termine di quell’iniziazione, sarei diventato una specie di artista.

Ero l’unico dei miei compagni che si era lasciato abbindolare da quelle vecchie illusioni. Non ne parlavo mai, mi ricordavo appena io stesso di averci un tempo creduto. Eravamo una banda di quattro o cinque. Fingevo alla perfezione la disinvoltura chiassosa, la fiducia nel futuro dei miei compari, la loro indifferenza di fronte ai corpi che ci venivano a volte assegnati. Il presente e l’avvenire erano immersi nello stesso chiarore. Preferivo evitare di pensare che era esistito un passato, i cui angoli erano meno netti, che era stato meno luminoso. Non c’era più posto per lui in questo mondo.

(…)

Cercavo di passare inosservata. Ma è difficile. Per quanto sforzi tu faccia, non sei del posto. Sopportavo le battute scurrili che dicevano guardandomi dritta negli occhi, le risate sguaiate, gli sguardi d’intesa, le allusioni xenofobe. Sopportavo il perenne discorso che facevano a voce alta, apposta, sui parigini, razza esecrata, che loro s’immaginavano tutti, indistintamente, sempre di corsa, arroganti, complicati. Avevano decretato a priori che il parigino li disprezzava, e quel complesso d’inferiorità era per loro un alibi sufficiente ai pregiudizi. Mi mettevo gonne che si mimetizzassero con il colore dei muri, non troppo corte, e maglie color asfalto, arrivavo persino al parka. Accorciavo i tacchi. Mi estasiavo alla vista dei cani, accarezzavo le nuche dei bambini.

Non curavo le autorità, che avevano già un loro medico, ma disoccupati, casalinghe, ottantenni che venivano a raccontarmi la loro vita. Ho saputo tutto delle disgrazie, delle malattie, delle abiezioni locali. Le brave donne si chinavano in avanti, sbirciando di lato e abbassando la voce. Ho saputo dell’acqua resa imbevibile dallo spargimento di letame di maiale, di pesticidi e di concimi, dei bambini illegittimi, delle nonne abbandonate negli ospizi, degli artigiani pieni di debiti che andavano in giro in Mercedes ultimo modello. Ho appreso degli amanti presunti della maestra nubile, del supposto cancro di un mio collega di un ambulatorio rivale, del passato collaborazionista di vecchi pensionati in apparenza inoffensivi.

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