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Rebecca Makkai. Ho qualche domanda da farti

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Di Rebecca Makkai, scrittrice dell’Illinois con trascorsi all’Iowa Writers’ Workshop, qualcuno di voi avrà letto I Grandi Sognatori, finalista al premio Pulitzer e al National Book Award, tra i dieci migliori libri del 2018 secondo il New York Times. In Italia il romanzo è stato pubblicato da Einaudi nel 2021. A tre anni di distanza, Makkai torna con un nuovo libro, stavolta edito da Bollati Boringhieri e tradotto da Marco Drago, che ha tutte le carte in regola per bissare il successo dell’opera precedente: “Ho qualche domanda da farti” è un romanzo complesso, con una partenza lenta ma che via via disvela un ingranaggio prodigioso, ad ampio spettro, al cui interno si sviluppano diverse trame tenute insieme da un tragico evento: l’assassinio di una liceale avvenuto ventitrè anni prima. La storia è raccontata in prima persona dalla protagonista, Bodie Kane, una docente di cinema e nota podcaster losangelina chiamata a tenere un corso nel suo ex liceo, in mezzo ai boschi del New Hampshire. La storia, scritta sotto forma di lettera/diario, Bodie non la racconta al lettore ma a un altro personaggio del libro che non compare mai fisicamente sulla scena, un personaggio che potremmo considerare “chiave” qualora attribuissimo al romanzo una connotazione noir, ma farlo non sarebbe onesto o leale: rischieremmo infatti di deviare l’attenzione sul delitto, tralasciando le parti più importanti della narrazione. Se da un lato Bodie torna a indagare su quella vicenda, già archiviata con una condanna probabilmente ingiusta, attraverso uno dei suoi allievi del corso, dall’altro Makkai sembra spingerci in altre direzioni. 

Più che sulla morte di Thalia Keith, questo è il nome della studentessa, Makkai indaga sul senso del ricordo e su come certe verità vengano percepite, elaborate a distanza di anni. Ritornando nel suo vecchio liceo, Bodie è costretta a fare i conti con un passato che ricordava diverso, lei stessa si percepiva diversa. Chi è il vero colpevole della morte di Thalia? Di colpevoli ce ne sono tanti, ciascuno ha inferto il suo piccolo colpo tacendo o traendo conclusioni affrettate, spesso falsate dall’antipatia o dal pregiudizio, altre volte dall’invidia “È sempre per il gusto del gossip che abbiamo diffuso storie di insegnanti con cotte per gli studenti, che guardavano le gambe delle. E ci abbiamo perfino creduto”.  

Bodie ha due figli, un marito dal quale si è separata ma non del tutto, è un amante a distanza che nei momenti decisivi pare sfuggirle. Una delle trame del libro ha a che vedere con la ferocia di un certo uso distorto dei social. Per aver messo un like ad un tweet senza neppure essersene resa conto, Bodie finisce al centro di una polemica violentissima. È il volto virtuale del pregiudizio, che ci guida su altri terreni scivolosi: l’ossessione per la correttezza del lunguaggio e la sensibilità di facciata per essere inclusi nel gruppo o nella bolla giusta “Non posso raccontare un caso di violenza di un bianco ai danni di un nero perché io sono bianca. Sarebbe un’appropriazione” dice un’allieva di Bodie nelle prime battute del romanzo.

“È una storia in cui lei era abbastanza giovane, abbastanza bianca, abbastanza bella e abbastanza ricca da indurre la gente a prestare attenzione…Una storia in cui eravamo tutti abbastanza giovani da pensare che ci fosse uno più furbo che potesse darci le risposte. Una storia che forse abbiamo capito male”. 

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