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La Ballata delle frontiera. Storie dal secolo belva. Intervista a Flavio Fusi

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Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction, questa settimana, incontriamo il giornalista Flavio Fusi, volto storico del Tg3 e testimone e cronista delle più importanti crisi internazionali degli ultimi anni. Dopo “Cronache infedeli” pubblicato nel 2017 da Voland, Flavio Fusi, dal 22 marzo, è tornato sui nostri scaffali con “La Ballata delle frontiera. Storie dal secolo belva” edito nella Collana Scritti Traversi di Exòrma Edizioni.

«Fusi racconta, ma solo dopo essersi preso la responsabilità di capire». scrive nella sua bella prefazione, Giovanni Floris. “La ballata delle frontiere” è un grande racconto e una “riflessione sull’esistenza” Ci vuoi spiegare bene come nasce l’idea e portarci in quella che è l’officina di lavorazione di questo libro?

La formula “officina di lavorazione” mi sembra particolarmente centrata per questo mio libro. Come sai non sono uno scrittore, ma un giornalista: un lavoro straordinario che ho interpretato per anni come un lungo viaggiare, attraverso le crisi, le guerre, innumerevoli geografie, migrazioni di popoli e di intere comunità. Per quanto entusiasmante, il mio è stato un lavoro, e il lavoro – qualsiasi lavoro – è legato da mille responsabilità. Il cronista, se è un buon cronista, avverte la sua responsabilità di fronte ai lettori, agli spettatori, al pubblico: infine, di fronte alla realtà stessa che è chiamato a descrivere e interpretare. Per affrontare la scrittura di un libro, bisogna invece sentirsi totalmente liberi. E questo è successo quando ho lavorato al  mio primo libro: “Cronache infedeli”, edito da Voland. Ero pronto, il titolo stesso era un po’ un manifesto e una dichiarazione di intenti: rivendicavo  il diritto – direi il privilegio – di essere infedele rispetto alla realtà che descrivevo o interpretavo.
“La ballata delle frontiere” è quasi  il secondo atto di questa umile evoluzione: un passo ulteriore che compio  verso la libertà dello scrivere. Qui il paesaggio è sempre lo stesso, ma dissezionato in una geografia più complessa, libero di correre dall’Ucraina aggredita agli altipiani del Perù, dalle fosse comuni delle guerre di Bosnia all’Argentina della dittatura dei colonnelli.  Un paesaggio infine impastato con le mie memorie più antiche, con i miei sogni di ragazzo e le mie delusioni di uomo ormai più che maturo, con le mie letture, anche: con i libri che ho amato e che ancora porto nel cuore. Officina di lavorazione, come dici: ho iniziato a scrivere partendo da una parola che secondo me incarna lo spirito selvaggio del nostro tempo: la frontiera. Così ho ripercorso nella memoria tutte le frontiere che ho attraversato nei decenni, verificando di volta in volta la sostanza di questi orizzonti: frontiere di roccia, frontiere di sabbia, frontiere di boschi, frontiere e trincee, frontiere di mare e fiumi: “tierra y fuego, agua, aire compacto”, come dice una canzone che parla di migranti in cerca di vita e di futuro dal Messico alla terra promessa degli Stati Uniti.
Infine frontiere mentali e spirituali: noi e loro, la mia storia personale di fronte alle storie minime di tutta l’umanità dispersa che ho incontrato negli anni del mio girovagare.  Poi, però, bisogna scrivere.  Scrivere – ma non dico nulla di nuovo –  è stato a giorni una sofferenza, a giorni una festa. Per mesi ho scritto e riscritto, aggiunto e tagliato. Ci sono elementi e storie che risalgono alla primissima idea, ci sono le aggiunte delle ultime ore. Uno vive, e vivendo scrive. Spesso ho pensato di non farcela, e quando miracolosamente mi sono trovato a pagina cento ho capito che forse ne valeva la pena e ho cominciato a sentire  le strofe di una ballata.

Attraverso le frontiere della storia, il racconto dei fatti intreccia eventi e luoghi con le storie delle persone. Ti va di dettagliare il libro per i lettori forti di Satisfiction a partire anche dalla scelta di “storie dal secolo belva” nel sottotitolo ?

“Secolo belva” è a suo modo la parola chiave di tutto il libro.  “Mio secolo, mia belva”, scrive in una delle sue liriche il poeta russo Osip Mandel’stam, vittima del terrore staliniano, condannato nel 1938 a “dieci anni senza diritto di corrispondenza” e mandato a morire in un gulag della remota Siberia.
La Russia, che ho ben conosciuto nei miei anni di cronista, costituisce  una parte importante del libro, e la Russia di oggi – la Russia di Putin – si rivela sempre più simile alla vecchia, tragica, Unione Sovietica di Stalin.  Ma al di là del capitolo dedicato alla sanguinosa  marcia imperiale del Cremlino  – “Geologia dell’impero” – la definizione di secolo belva mi è sembrata particolarmente adatta ad interpretare lo spirito del tempo in cui viviamo. Che è un tempo spietato, un’età di guerre e di massacri, un secolo senza pietà, un secolo che sbrana. Un tempo che – per avventura e quasi per spregio – viene dopo il Secolo Breve: quel Novecento che prometteva la liberazione dei popoli e il superamento di tutte le frontiere, e che si illudeva immaginando addirittura la “fine della storia.” Quanto quella aspirazione fosse fallace e infantile lo misuriamo oggi giorno dopo giorno. Non parlo tanto delle guerre di cui siamo testimoni, ma del paesaggio che abbiamo di fronte: chi può immaginare oggi un  futuro per la nostra umanità?
Se fossi un autore di fantascienza, potrei oggi scrivere di questo. Ma più modestamente sono un vecchio cronista prestato alla scrittura e lavoro con il mio  materiale. La “Ballata delle frontiere” è dunque un racconto periferico e caotico di storie del nostro secolo, attraverso la testimonianza di minuscole esistenze, minuscole tragedie, minuscole avventure, minuscole resistenze.
Il racconto muove dal caos primigenio ai piedi del Muro di Berlino che crolla e dalla fulminea dissoluzione di un mondo che credevamo scritto sulla pietra. Prosegue nella lunga vicenda della dissoluzione del fianco orientale dell’Europa con le guerre balcaniche, poi attraversa l’Oceano e percorre la lunga frontiera che si stende come un taglio orizzontale, una gola squarciata tra Nord e sud delle Americhe. Ritorna poi verso la nostra Europa con la tragedia senza fine della terra palestinese e ancora con il nuovo delirante teatro di guerra del  secolo belva:  il conflitto tra Russia e Ucraina. Dentro questo scenario il viaggio si sofferma sulla sorte dei più piccoli, dalla “raccolta dei ragazzi” praticata nel quindicesimo secolo dall’impero ottomano nelle terre di Bosnia, al sequestro dei neonati nel periodo della dittatura argentina, fino al rapimento dei bambini ucraini sulla frontiera del Donbass.
E infine, ecco la frontiera delle frontiere. Chi sta in fondo al mare e chi il mare lo ha attraversato: l’avventura di milioni di esseri umani spinti dalla fame e dalle guerre verso il sogno di una lontana terra promessa.

Da Sarajevo a Berlino, dall’Ucraina agli Stati Uniti al Sudamerica e all’Africa, il libro ci porta nei luoghi delle più importanti crisi internazionali. Da cronista di lungo corso, quale degli attuali focolai e crisi ti suscita maggiori preoccupazioni e quale è la storia che ti piacerebbe raccontare o sviluppare in un prossimo reportage?

Dal romanzo all’amara realtà. Tu mi chiedi di punti di crisi, di guerre ed enigmi  che sono tragicamente sotto gli occhi di tutti da mesi e da anni. La ferita mediorientale è aperta ormai da mezzo secolo: una ferita che la colpevole inerzia del mondo – a partire dalle democrazie occidentali – ha lasciato infettare e incancrenire senza speranza. Dopo il pogrom e la presa di ostaggi israeliani del 7 ottobre, e nel pieno dello spietato massacro di Gaza, siamo giunti a un terribile paradosso: il premier Netanyahu è il più efferato nemico degli israeliani, mentre i terroristi di Hamas sono i più efferati nemici del popolo palestinese.  E tuttavia i due aguzzini parlano in nome di Israele e della causa palestinese. Dunque il futuro è oscuro: la vecchia parola d’ordine dei  due popoli e due Stati è ormai priva di senso. Non c’è Stato senza territorio, e la terra dei palestinesi è stata erosa, conquistata, cancellata e negata negli ultimi due decenni. Nello stesso tempo Israele è chiamata a fare i conti con dinamiche interne che minano la sua stessa sopravvivenza come unica democrazia – seppure imperfetta e malata – nel quadrante mediorientale.
Lo stesso si può dire della tragedia dell’Ucraina: negli ultimi venti anni il mondo ha assistito inerte alla trasformazione della Russia in una autocrazia imperialista.  Mentre l’Occidente faceva affari con Mosca e si abbeverava alle fonti energetiche del colosso dell’Est, Putin ha alimentato il suo sogno imperiale con aggressioni sanguinose: ha massacrato  la Cecenia, ha mosso guerra due volte contro la Georgia, ha strappato alla Moldavia un territorio strategicamente decisivo, infine ha amputato l’ Ucraina della Crimea e del Donbass. La guerra aperta, scatenata due anni fa, è la degna conseguenza di questa avanzata imperialistica.
Oggi l’Ucraina si trova  in gravi difficoltà, perché ha contro un colosso che in questi due anni ha convertito la sua industria in una macchina da guerra e che invoca  la guerra santa contro l’Occidente e i suoi principi.   La caduta di Kiev  sarebbe una tragedia per il popolo ucraino e una vera catastrofe per la nostra Europa.
Ma io sono solo  un umile osservatore, come tutti noi. Non ho potere, se non quello di soffrire per le vittime e di indignarmi contro gli aguzzini. Il mio libro parla per me, ma con  “La ballata delle frontiere” sento di aver pagato il debito a quello che sono stato, ai miei viaggi e alla mia vocazione di cronista. Dunque non ci sarà una replica. C’è oggi invece questo libro che amo e che accompagnerò nel suo modesto viaggio.
Per un possibile futuro sto pensando invece a un romanzo meticcio tutto diverso dai miei precedenti. Sarà la biografia fantasiosa di un personaggio reale – a suo modo eroico e contraddittorio – e la scrittura mi porterà in alcuni dei miei territori più amati: a Cuba con Che Guevara, in Colombia con Garcia Marquez, nella dolente epopea argentina insieme a Rodolfo Walsh e a tanti altri compagni di rovesci e di avventure. Ho detto scriverò, ma devo correggermi. In realtà dovrei dire: ci proverò, perché non sono sicuro di essere all’altezza del compito e del sogno. Vedremo.

BUONA LETTURA DI “LA BALLATA DELLE FRONTIERE. STORIE DAL SECOLO BELVA ” DI FLAVIO FUSI.

Antonello Saiz

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