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Roberto Roversi anteprima. Non isolarsi ma ascoltare

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Esattamente il 14 settembre del 2012, ci lasciava Roberto Roversi. Probabile che i meno accorti dei fatti di poesia non sappiano di chi si sta parlando. Forse qualcuno ha memoria di alcune canzoni cantate da Lucio Dalla che portavano la sua firma, tipo Nuvolari. Non molto di più, crediamo, sia possibile raccogliere in giro.

Ma Roversi è stato uno fra i più importanti esponenti della poesia civile in Italia. Il suo nome è pari a quello di Fortini o di Pasolini, di cui fu amico, per cercare di proporre un minimo quadro. Al contrario di amici e sodali però, lo scrittore e intellettuale bolognese da un  certo punto in poi preferì non cavalcare l’onda della notorietà e preservare le sue idee, rispetto al mercato culturale che montava attorno agli anni cinquanta del Novecento.

In altre parole, preferì ritirarsi dalla scena pubblica, rifiutando non solo di concedere la sua immagine ai mass media, ma anche scegliendo la massima autonomia di pubblicazione per i suoi testi.

Proprio a partire dagli anni Sessanta infatti il suo lavoro poetico ha iniziato a disseminare il suo lavoro poetico (ma anche politico) su riviste e piccole sigle editoriali a bassa tiratura, oppure a ciclostilarlo e distribuirlo in proprio verso chi gliene faceva richiesta.

Anche questa scelta ha reso molto del suo lavoro immediatamente introvabile e, allo stesso tempo, estremamente prezioso.

A dieci anni dalla sua scomparsa, esce oggi, 16 settembre, nelle librerie Non isolarsi ma ascoltare, antologia-summa di quanto Roversi ha prodotto dagli anni Sessanta del Novecento agli inizi del nuovo secolo.

Curata da Antonio Bagnoli, in qualità di patron della casa editrice Pendragon, Non isolarsi ma ascoltare propone un percorso che da Dopo Campoformio (ultimo titolo a vedere la pubblicazione per due case editrici di grosso calibro, prima Feltrinelli poi Einaudi) giunge a L’Italia sepolta sotto la neve, poema uscito per frammenti sino alla sua composizione finale (stampa in 100 esemplari) nel 2010. In mezzo troviamo Le descrizioni in atto del 1970 e a chiudere quanto Roversi ha raccolto nell’ultimo suo volume Contro il tarlo inimico o distribuito su riviste, fogli letterari e altre pubblicazioni.

L’antologia non propone l’intero corpus dei testi, ma una selezione, scegliendo per sé la posizione di chi invita alla lettura delle opere (rintracciabili gratuitamente sul sito www.robertoroversi.it) e stimola al confronto con lo stile duttile e sempre in movimento di questo autore.

Divisa in quattro sezioni, Non isolarsi ma ascoltare si avvale per ognuna di esse dell’introduzione critica di altrettanti studiosi, universitari o “militanti”.

Nell’ordine troviamo così a precedere la scelta dei testi poetici di ognuna Marco Antonio Bazzocchi, Matteo Marchesini, Marco Giovenale e Fabio Moliterni.

I singoli critici approcciano il lavoro di Roversi mantenendo una loro posizione interpretativa, ma senza entrare in inutili appesantimenti, dando così modo al lettore di recepire lo sfaccettato universo poetico di quello che possiamo definire l’ultimo, grande autore del nostro Novecento a mente libera.

Sergio Rotino

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«…noi sentiamo che per Roberto Roversi l’aggettivo epico non è sprecato. Questo poeta, che dopo la Resistenza si è chiuso a fantasticare nelle stanze di una libreria antiquaria, vedeva la vita e la letteratura come una serie di battaglie nobili e atroci in cui sono sempre coinvolte le sorti del mondo intero. Nell’uomo emiliano, sedentario e sognante, alligna spesso questa immaginazione gloriosa, agonistica, drammatica, che Roversi traduce in scene belliche ma anche sportive: i combattenti anonimi o famosi che cadono nell’erba spagna, i miti della politica o dell’arte impegnati in una partita di calcio, gli Ettore e gli Achille dell’automobilismo… L’opera roversiana ci mette continuamente di fronte a profili umani esemplari, che spiccano su un’arena planetaria. Per Roversi, come per i vociani più moralmente risentiti, i libri non sono l’opposto dell’azione ma una delle sue forme; e non a caso uno dei suoi eroi è Courier, insieme soldato, pamphlettista e filologo.

Concependo la realtà in questa maniera, come si evince anche dai passi più trascurabili delle introduzioni, degli articoli o delle lettere, l’autore di Dopo Campoformio ha potuto perseverare con tenace e calma “pazzia” a inserire i propri versi nella cornice di poemi lunghi, e di lunga lavorazione. Mentre i suoi coetanei, che come lui hanno attraversato in poco tempo molti traumi storici ed estetici – ermetismo e fascismo, guerra e neorealismo, delusione ideologica e postmoderno – tentavano d’inventarsi ogni decennio qualche poetica nuova capace di filtrare tra le maglie sempre più strette dell’industria culturale, Roversi ha rotto con quell’industria senza smettere di forgiare le sue ampie lasse. I contorni di queste lasse si modificano; ma non la loro natura profonda – non la vocazione a concentrare i tempi e gli spazi più diversi in una sorta di chilometrico murale. Una tale fedeltà al poema, o se si vuole alla flessibile opera-mondo, permette a Roversi di aprirsi via via a tutte le voci che gli porta la cronaca, senza però crollare sotto il suo vento impetuoso.

Le “descrizioni” degli anni Sessanta sono dunque il momento cruciale, l’antitesi dell’opera roversiana. Il che non stupisce, perché il decennio aperto dal boom è quello in cui, a quarant’anni, Roversi e i suoi coetanei (Fortini, Pasolini, anche Calvino e Sciascia) vedono definitivamente tramontare il paesaggio fisico e culturale all’interno del quale erano diventati scrittori: l’Italia ancora umanistica del dopoguerra, con il suo engagement e le sue speranze in una letteratura “realistica”, o apertamente oratoria, o in qualche modo didattica e populista… Di qui la diaspora degli ex compagni di strada, che si verifica proprio mentre nella generazione immediatamente successiva si crea un gruppo di pressione – la neoavanguardia – che maramaldeggia sul presunto provincialismo dei fratelli maggiori, e che mostra di trovarsi subito a suo agio tra accademie, mass media, avventure internazionali.

Tra il primo e il secondo poema, Roversi allude spesso a questi giovani scaltri, tempestivi, saputi e maliziosi. Le loro manifestazioni sono uno dei tanti segni che non esiste più un’alternativa possibile all’esistente. Nell’Italia del benessere, nel mondo della “coesistenza pacifica” e delle atrocità belliche alle periferie dei due blocchi, le speranze di prima appaiono a un tratto ingenue, quasi imbarazzanti. Eppure Roversi non abdica. Semplicemente, dato che sa prendere atto della situazione e non vuole scegliere la strada del pompierismo, registra le novità inglobandole nel suo discorso. Non usa il caos linguistico come presuntuosa autoassoluzione: ne fa anzi uno strumento di ancora più aperta denuncia, il mezzo di un’oratoria stravolta ma ben decisa a non lasciarsi ricattare da chi la stigmatizza come superata. Per compiere un’operazione del genere, ci voleva tutta l’abilità di uno dei maggiori poeti del nostro Novecento.»

(Matteo Marchesini da Lettura di Le descrizioni in atto)

Prima descrizione in atto

Ritorneranno i tempi (duri)

piangeranno contro i muri le madri

aspettando il ritorno dei figli.

Questo tempo che ha uomini di così debole fiele.

La presunzione li fa ritenere superbi

grandi (leggere le gazzette)

ma api al miele

corrono ai peccati di sempre

non c’è nulla che li trattenga.

Parole di ammonimento

sono spazzate dal vento via.

Cederemo ancora una volta alla morte.

È fango la volontà di riscatto.

I ramarri escono dalle crepe.

Spezzate statue.

Lacrime nel buio.

Volgendosi intorno egli vede

crede di intendere e sapere

forse qualcosa più di un altro, ma sotto

la razionale immobilità della misura (dell’ordine apparente)

lo scaltro è in attesa,

il mugolio di quel canto ha il sapore di un tuono;

striscia il topo

sul cornicione di marmo

poco fa tre ragazzi in fila

si indicavano una donna,

ibrida smorta era al riverbero della colonna.

Nelle case dei poeti questa è l’ora del tè.

Lo scirocco spezza i tegoli e

l’occhio del piccione è succhiato

dallo spiraglio del sole

mentre in pigiama una ragazza magra

si dondola nel vano della finestra

dentro le aiuole delle alpi al lontano

rumore della foresta

traluce oltre misura il rosso dei capelli,

le efelidi leggere, pule di grano, i

giovani anni sul viso. Intanto in quest’ora

i doganieri indossano la tuta sul lago di Como

mentre un uomo ansima solo, suda

all’ombra del Monviso e

se non corre sarà presto morto

nella sua carne nuda.

«Il poeta e cittadino che era stato in grado di misurarsi con la negatività assoluta della guerra e con le contraddizioni dell’Italia postbellica, soprattutto nei versi di Dopo Campoformio (1962 e 1965), e che subito dopo aveva affrontato di petto con Le descrizioni in atto (dal 1970) le conseguenze e le crisi del boom economico, arriva agli anni Ottanta con un carico di disillusioni che tuttavia non gli impedisce di affidare a un lungo dissonante poema, fitto di immagini accese, la ricapitolazione in senso non distruttivo, non pessimistico, di una storia collettiva e personale.

Una ricapitolazione tutta immediata, non cronologica, in forma di invettiva, di memoriale, di scatti fotografici improvvisi, di interrogazione molteplice sul presente. Questo è L’Italia sepolta sotto la neve. Ed è, insieme, un inno alle molte forme di Resistenza (nominata come “resistenza a oltranza” solo in un frammento qui non antologizzato) che hanno tenuto e tengono insieme la struttura del Paese.

È poema-flusso, sequenza veloce di sequenze velocissime, fiume in cui la storia parte e torna spesso sul luogo dove, nell’esperienza del poeta come nella vicenda del Paese, è caduto il fulmine più devastante: la Seconda guerra mondiale. O, meglio ancora, il tempo fuori dal tempo di tutte le guerre, occidentali e orientali, che non smettono di iniziare, e di finire per ricominciare (tra cui, non ultima, quella contro la civiltà contadina, che Roversi ha visto con sgomento consumarsi negli anni Quaranta e Cinquanta).

Il respiro poematico ampio, e inevitabilmente e dichiaratamente epico, non ha però in Roversi risvolti di ideologia, o posizioni di sprezzatura. Semmai, al contrario, acquista luce idiomatica, non fredda, dalle figure umane che vi sono coinvolte; e da un serbatoio di immagini, spesso surreali, infinito e ben diverso nei risultati dall’impostazione didattico-didascalica del poeta americano, prigioniero spesso di un presunto ruolo parenetico, o proprio profetico.

La tendenziale indistinzione o meglio l’intreccio di poesia e prosa, di cui Roversi aveva dato prova in entrambi i generi letterari, ossia tanto nelle poesie di Le descrizioni in atto quanto nel romanzo de I diecimila cavalli (1976), con L’Italia sepolta… prende a stabilizzarsi in modalità definita. Diviene insomma il linguaggio duttilissimo di un autore e istoriatore che non smette di essere – appunto – narratore, anche in versi i più frantumati, spiazzanti, immaginosi.»

(Marco Giovenale da “Lettura di L’Italia sepolta sotto la neve”)

 

12.

La neve è calda come il tempo della neve.

Da una finestra in aperta campagna

il palmo della mano di un ragazzo

cerca di stringere un poco d’erba distesa sotto la neve.

Guardare è un sogno.

Quante cose avrei potuto fare se fossi stato diverso

povero passero uccello gramo

arrivato a questo punto del volo

mi rendo conto della fragilità del ramo

e ricomincio a volare

 

16.

Ho passato settimane vuote mi sono sentito

senza più anima mi sono sentito senza

il vento della vita del tutto appassito

mi sentivo mi sono sentito tutto appassire

sfiorivo fra il canto delle rose esplodenti

era la voce delle cose a consumarmi.

Come il sapiente antico mi sono stancato di contare le ore

ho cercato il vulcano.

Con un dito sfioravo la frammentaria luce della vita

che passava

non ascoltavo altra voce che

un modesto borbottare

con un dito seguivo il volo di alcune anatre dentro

all’occhio del sole. Alzavo cerchi di polvere.

Il vento freddo della sera scivolato via da un campo

il suo brivido

non ha spento il mio cuore

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