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Ron Rash. Un piede in paradiso

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Un piede in paradiso è il romanzo che nel 2002 segnò l’esordio di Ron Rash nella narrativa di ampio respiro (prima aveva pubblicato diverse raccolte di poesie e racconti brevi), e lo porta oggi in Italia l’editore La Nuova Frontiera, con la traduzione di Tommaso Pincio. Un’estate degli Anni cinquanta, nella Jocassee valley, Carolina del Sud. Holland Winchester, reduce dalla guerra di Corea, scompare, probabilmente è stato ammazzato. A dare l’allarme è la madre, ed è sempre lei a indicare allo sceriffo Alexander il probabile colpevole: Billy Holcombe, l’uomo la cui fattoria confina con quella dei Winchester. La donna ha sentito un colpo di fucile, dice. Partono le indagini, ma lo sceriffo ne cava solo sospetti, nessun cadavere, nessuna confessione. Pur avendo la partenza di un noir, Un piede in paradiso si rivela presto un’altra cosa, molto più complessa.

È innanzitutto il racconto di un luogo, la vallata il cui nome in lingua Cherokee vuol dire “valle degli scomparsi”. Come spesso accade nelle narrazioni che guardano a un’America più dimessa e rurale, quello ritratto da Rush è un mondo in bilico, vive suo malgrado proiettato verso il futuro e al contempo è ancora intriso di superstizioni e credenze popolari. È dunque un mondo prossimo alla scomparsa, letteralmente: una compagnia elettrica, la Carolina Power, sta acquistando tutti i terreni e inonderà la vallata per costruire una diga. Di questo senso di sfacelo imminente il racconto ne è intriso, il lettore lo ritrova negli sguardi di ognuno dei personaggi, è una sensazione che è lì, una minaccia che anche lui, il lettore, avverte man mano che la lettura procede.

Ed è poi il resoconto di una tragedia, un fattaccio di sangue visto dagli occhi di chi questa tragedia la vive e ne è attore principale. Tutto ruota attorno alla morte di Holland Winchester, alle sue motivazioni, alla rete di delusioni e silenzi, di tradimenti e gelosie che quella morte l’hanno causata. C’è di mezzo un figlio illegittimo, una gelosia, e un destino di violenza che pare quasi scritto nella terra, una predestinazione.

La caratteristica più vistosa del testo è il suo indagare uno stesso evento da più prospettive, utilizzando cinque voci diverse. È un movimento che va lentamente verso l’interno e poi riemerge. La prima voce, quella dello sceriffo Alexander, sta proprio sulla superficie, è quella che presenta i fatti, li indaga, non li capisce. Con le altre due voci (Billy Holcombe e sua moglie Amy) si completa quella che possiamo dire l’immersione: del fatto delittuoso si conoscono le ragioni, le sensazioni, i dolori che lo hanno accompagnato. Le ultime due voci sono quelle che ritornano all’esterno, dell’evento morbosamente indagato dalle prime tre mostrano le conseguenze. A parlare sarà prima Isaac, il figlio degli Holcombe, e poi, infine, il vicesceriffo, quest’ultimo quando il sipario sarà calato e i fatti saranno ormai irrimediabili.

A tirare avanti la trama non è dunque il tentativo di disvelamento di un mistero, i fatti sono lì fin dall’inizio, vittima e colpevoli subito annunciati. È piuttosto la profonda umanità delle voci parlanti a fare da vero motore del racconto. Si tratta in fin dei conti di una vicenda semplice, priva di grandi rivolgimenti, eppure allo stesso tempo carica di tensione. La scelta di utilizzare una prospettiva multipla sugli eventi permette al racconto di coprire uno spettro di emozioni più ampio, mettendo in scena i tormenti di ognuno, i conflitti interiori che stanno alla base della tragedia.

A vicenda conclusa, rimane solo il silenzio di un luogo svanito. Ron Rash ha costruito un romanzo potente, una traiettoria di caduta e redenzione che possiede la suggestione del racconto biblico.

Edoardo Zambelli

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Ron Rash, Un piede in paradiso, La Nuova Frontiera, traduzione di Tommaso Pincio, 2021, 256 pagine, 16,90 euro

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