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Serena Scarel anteprima. Una scelta

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Esce oggi per la piccola casa editrice triestina Vita Activa Nuova-VAN, il romanzo di Serena Scarel, Una scelta (pagg. 224, € 17,00).

Opera di esordio, il romanzo è raccolto in un arco temporale che porta il lettore con un moto circolare, da novembre 2017 a questo stesso mese e a questo stesso anno.

Uniche concessioni all’organizzazione dei capitoli, cadenzata sullo scorrere dei mesi, sono il lungo flashback (dicembre 2016) posto in sottoapertura e la lettera finale che il padre della protagonista Virginia le aveva scritto anni prima.

Con una scrittura alta, che riverbera l’amore per i classici della letteratura, e un sapore ottocentesco fra le pieghe di una contemporaneità dichiarata, l’autrice costruisce un dramma altoborghese attorno a Virginia e al suo ultimo anno di vita, quando scivola lentamente ma inesorabilmente nel pozzo della depressione.

Psichiatra con base a Monaco di Baviera, Scarel pedina in maniera stringente la sua protagonista, mettendone in scena la storia privata così da rendere evidenti le radici del male oscuro che la consuma.

Allo stesso tempo, utilizza Trieste per costruire attorno a Virginia le quinte evocative della vicenda.

Trieste, città da sempre primo bastione nella ricerca psichiatrica è, a tutti gli effetti, la coprotagonista de Una scelta. Non, o non solo, per il suo essere nominata, per il suo diventare evocazione di una bellezza asburgica, solenne, quanto per la storia medica e culturale cui rimanda la sua presenza nel procedere della narrazione.

Questo romanzo potrebbe essere definito allora come “qualcosa di molto triestino”, tenendo conto delle tante storie personali intrecciate con la nevrosi che hanno attraversato la città giuliana.

Eppure, come ogni storia che si rispetti, i motivi che muovono i personaggi al loro destino non sono fissati a una topografia precisa, spaziano in un territorio interiore così vasto e tragico da non ammettere confini.

Sergio Rotino

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Durante l’ultimo incontro con Franceschini, era come se si fosse aperta la visione su una stanza buia; fino ad allora, solo una tenda fatiscente l’aveva tenuta nascosta alla sua consapevolezza. Lo psichiatra aveva insistito a chiederle di suo padre. Quelle domande l’avevano riportata indietro nel tempo, facendole rivivere i giorni che erano seguiti alla sua morte.

Il suono del campanello della casa dei genitori, e l’immagine dei carabinieri che si scusavano per il disturbo mentre varcavano la soglia dell’appartamento, erano riemersi dall’oblio in cui erano stati relegati per decenni. Erano riapparsi nitidi nella sua memoria.

Era stato davvero un caso che allora, quando quei militari si erano presentati, anche lei si trovasse in casa dei genitori e non a Trieste, dove trascorreva ormai la maggior parte del tempo?

Quando le avevano comunicato che il marito era deceduto in seguito a un incidente stradale, alla madre erano mancate le forze. Si era afflosciata su se stessa e se non fosse stato per uno dei carabinieri che prontamente l’aveva afferrata e fatta stendere sul divano, sarebbe caduta lì in mezzo al corridoio. Avevano chiamato un medico, che con un’iniezione di tranquillanti l’aveva spedita dritta in uno stato di semi-incoscienza. Si addormentava per qualche minuto per poi lamentarsi nel dormiveglia ed era rimasta in quello stato fino al mattino seguente. Chi si fosse messo in contatto con una cugina che era apparsa dopo neanche un’ora nell’appartamento per rimanerci fino al funerale, Virginia non lo sapeva, ma gli era stata grata. Come avrebbe fatto altrimenti da sola con la madre in quello stato?

Si ricordava di come il maresciallo portatore della notizia, un uomo sulla quarantina dal forte accento veneto, entrando si fosse tolto il berretto d’ordinanza, cosa che a Virginia era sembrata strana. Era rimasta a fissare senza reagire le sue mani inguantate di nero che lo rigiravano sempre nella stessa direzione, mentre spiegava con voce ferma: «Probabilmente un colpo di sonno. Di sicuro non ha sofferto». Frasi preconfezionate. «È accaduto ad altri su quel rettilineo», aveva aggiunto, come se questo potesse essere motivo di consolazione.

Queste erano le immagini e le sensazioni rimaste per anni relegate in un angolo della sua testa e che adesso, dopo l’ultimo incontro con Franceschini, spingevano per uscire.

Virginia percepiva quei ricordi come un impasto che, appena esposto alle giuste condizioni, inizia a lievitare senza lasciarsi più contenere.

Nei giorni seguiti a quella visita, la malata malinconia che la tormentava aveva assunto i contorni di un lutto rinnovato, come se solo adesso avesse raggiunto la consapevolezza di essere stata abbandonata da due genitori che le avevano appena fatto intravvedere l’affetto che provavano per lei. In maniera asimmetrica, perché perlomeno suo padre era riuscito talvolta a trasmetterlo, negli spazi che il suo precario stato di salute gli concedeva.

Nonostante lo sconcerto iniziale, dare un senso a ciò che le impediva di vivere normalmente le aveva provocato quasi sollievo. Stava cominciando a darsi delle risposte. Erano trascorsi alcuni giorni e un mattino silenzioso, dopo colazione, aveva deciso che era il momento di affrontare il vecchio comò che aveva recuperato due mesi prima da casa dei suoi e che adesso stazionava nel suo corridoio. Iniziò a rovistare nei cassetti. Il suo contenuto era rimasto dimenticato lì dentro per anni. Sapeva cosa vi avrebbe trovato: scatole piene di ricordi ingialliti, annunci di nascite, pagelle delle elementari, qualche santino e vecchie foto, che prima o poi avrebbe voluto riordinare. Se non fosse stato per l’inquietudine che le aveva provocato l’ultimo incontro avuto con il medico, quelle scatole sarebbero rimaste chiuse ancora a lungo.

Non ci aveva messo molto a trovare il vecchio reperto di cui aveva ancora un vivo ricordo. Alcuni giorni dopo il funerale aveva trovato la madre seduta al tavolo della cucina con le forbici in mano, intenta a ritagliare l’articolo riguardante l’incidente apparso sul Messaggero Veneto. Erano trascorsi quasi quarant’anni e la carta del giornale era ingiallita ma ancora leggibile. L’articolo, apparso il giorno successivo alla morte del padre, titolava banalmente: “Tragico incidente sulla statale 352”. Descriveva con una punta di voyeurismo sadico non solo il dolore della vedova e della figlia, che il giornalista in realtà non aveva mai incontrato, ma anche gli sforzi fatti dai vigili del fuoco per recuperare la salma dalle lamiere accartocciate intorno al fusto del platano centenario. Un incidente. Un tragico colpo di sonno. L’articolo grondava di certezze e non lasciava spazio ad altre supposizioni. Allora, quando tutto ciò era accaduto, Virginia si era chiesta come mai suo padre avesse insistito per andare da solo, nonostante il suo stato di salute precario, a trovare un cugino con cui non si vedeva spesso. Virginia non lo aveva quasi riconosciuto, quel cugino distante, quando al funerale era venuto a porgere le sue condoglianze; e non aveva osato chiedergli spiegazioni. In seguito, era stato troppo tardi per trovare una risposta.

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