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Tommaso Avati. Il silenzio del mondo

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Le parole tra le dita. Sulla punta, come scriveva Barthes nei suoi celebri Frammenti, non a caso citato in esergo ne “Il silenzio del mondo” (Neri Pozza, 2022) di Tommaso Avati, figlio di Pupi. Sordo dalla nascita. Elemento, quest’ultimo, tutt’altro che secondario per comprendere quello che è anzitutto un romanzo sul linguaggio, sul senso aumentato – più che mancato – di chi vive in un “mondo ovattato”, riprendendo la nota autorale riportata in quarta di copertina.

È il romanzo di chi è in grado di scoprire la menzogna dalla pronuncia di una consonante – il labiale specchio dell’animo umano – proprio come accade a Laura quando intuisce “la sbandata” del marito, protagonista di mezzo di una narrazione che attraversa tre epoche, tre donne, tre sorde alle prese con quell’altro mondo. Quale? Quello dell’inganno, soprattutto. Poiché “l’uomo ha iniziato a dover usare la lingua parlata quando ha cominciato a sentire il bisogno di mentire”: è sempre Laura a parlare, a segnare, stavolta rivolgendosi a Francesca, sua figlia, il “prodotto dell’oggi” che usa entrambi i linguaggi e non si arrende all’anatema di sua madre. Anzi, di sua nonna Rosa: la prima, l’iniziatrice, la trovatella abbandonata dalle suore che troverà casa in cambio di quaranta lire ogni tre mesi – «Non è granché», «questo diamo».

Siamo nelle campagne umbro-toscane, nel pieno del fascismo, nella miseria nera. Pietro si prende la bambina, quella di sinistra, ce ne sono due: lui vorrebbe l’altra ma Martino, suo fratello cieco di guerra, propende per Rosa. D’altronde, ha lo stesso nome che lui aveva proposto per l’ultima nata in casa, morta dopo pochi giorni come i precedenti tentativi: è per questo che sono lì, per dare una figlia a Lina, la moglie di Pietro – e per i soldi, anche, ché fanno comodo.

Rosa porta con sé solo il suo nome. E una carta, una donna di cuori strappata a metà: agnizione improbabile, forse impossibile, esattamente come quell’aporia insolubile che ben presto emerge tra i due mondi, quello di Rosa, Laura e Francesca, e quello degli altri, degli udenti. Di Iginio venditore di candele e oggetti sacri che, nella Roma del dopoguerra, città in cui si “trasferisce” il romanzo, relega Rosa incinta in una sorta di cella della casa – ghettizzata: è questa la parola ed è Avati stesso che la rivendica in una nota finale, facendo riferimento a quello “scellerato Congresso mondiale degli educatori per sordi” datato 1880 in cui l’uso dei segni fu bandito, destinando i non udenti a una marginalità crudele, surreale e secolare.

Rosa partorirà Laura e Laura, Francesca, figlia di Domenico, anche lui udente, anche lui oltre il guado, anche lui diverso com’è diverso ma in altro modo Gabriele, l’amico non udente di Laura, amore impossibile ma personificazione dell’unica via possibile: quella tra silenti. Gabriele e Laura sono uguali, infatti, indice contro indice nel loro linguaggio speciale, indice contro indice “al centro del campo segnante”: c’è modo migliore per dirsi affini? Per dirsi l’una dell’altro? Per sentirsi eletti?

“Un mondo semplicissimo, elementare, fatto di pochissime cose” è quello in cui comincia questa storia, nel borgo di Casine di Prodo, tra le galline. Un mondo sofisticato, rielaborato, in definitiva rottura o sospirata sutura quello della Roma di oggi in cui sembra terminare, con Francesca bellissima ed estrema che balla al centro di una festa al ritmo delle vibrazioni, un modo tutto suo di muoversi – di sentire.

La donna di cuori portata dal vento che chiude queste pagine e il silenzio del mondo che non ha mai urlato così forte.

Alessandro Galano

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