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Tre voci di Via Padova (trascritte da Dario Borso)

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Anteprima di un coro di voci desunte dal materiale girato da Giulia Ciniselli per Prossima fermata Via Padova (docufilm prodotto dall’onlus Città del Sole-Amici del Parco Trotter e dall’Azienda Servizi alla Persona Golgi-Redaelli all’interno del progetto MilanoAttraverso) che uscirà a breve sul terzo numero di Talkin’ Milano – Quaderni di Passeggiate d’Autore.

Bruna Erba, ex operaia. In via San Mamete è stata una bella infanzia perché è stata un’infanzia libera, c’erano i prati e io giocavo molto. La mia mente è stata salvata da questo in cui mi sentivo un po’ la bambina di tutti. Quando mia mamma lavorava al pomeriggio per esempio trovavo qualcuno che mi chiamava per fare la merenda. Ho avuto dai miei molti insegnamenti di solidarietà. C’era il calzolaio, Peder Bagàtt, che voleva i soldi in anticipo per comperare cuoio per risuolarti le scarpe, poi beveva e non te le risuolava più e non ti restituiva i soldi. Però mio papà, alla sera c’era un piatto di pasta e ceci o quel che l’è che mia mamma buona terroncina cucinava, e “Cià porteghene minga un piatt a Peder Bagàtt poerìn che stasera el mangia no!”. C’era una bambina disabile, mia mamma mi ricordo che la chiamava “Reginetta vuoi bere un tè, due biscottini?”. Poi dopo è successo che è nato un mio fratello gravissimamente disabile e anche lui ha avuto questa possibilità di essere il bambino di tutti perché noi abitavamo al pianterreno, mettevamo fuori il tavolino e la seggiolina e tutti passavano gli sorridevano lo carezzavano ed è stato anche per lui importante, non parlava ma si vedeva che era contento. Mia mamma è salita dal sud il primo maggio del 1946, aveva trovato da lavorare in una pensione come cameriera. Mio papà appena tornato dopo sette anni di guerra si sono incontrati ai giardini pubblici di Porta Venezia dove andavano le cameriere la domenica pomeriggio e nel giro di tre mesi si son sposati. Mio papà che era un operaio della Pirelli è stato licenziato nel 1952 quando avevo tre anni, uno dei primi delle grandi epurazioni operaie perché lui faceva parte della commissione interna e alla prima occasione l’hanno sbattuto fuori.

Roberto Coppola, verniciatore. Sono nato in via Padova al 265 davanti al Cinema Moderno che aveva anche l’arena estiva, dove adesso c’è un locale di strip-tease. Due colonne con sopra due leoni e un cancello e una grande corte che arrivava fino al naviglio della Martesana, si viveva in affitto una dozzina di famiglie ma eravamo tutti una famiglia sola, mi ricordo che da bambino ogni casa era la mia, entravo e uscivo da tutte le porte che allora non avevano neanche serrature. Non c’era luce non c’era gas e neanche l’acqua corrente in casa. In cortile c’era una pompa, mia mamma riempiva un mastello, lo lasciava al sole e mi pucciava dentro per farmi il bagno. Mio nonno i primi anni del secolo venne su dalla Puglia, da Borgo Tricase che è l’ultimo paese del tacco. Faceva le ruote dei carri già lì, qui lavorava in fondo al cortile sotto una tettoia. Un giorno di primavera gli uomini delle famiglie decisero tutti insieme di andare a caccia di rane. Allora c’era acqua dappertutto, non c’era solo il naviglio, c’erano rogge fontanili marcite, ovunque ci si girava c’era acqua. Anche a lato di via Padova c’erano due fontanili che scorrevano, sicché per andare a caccia di rane bastava uscire di casa. Gli uomini tornarono ciascuno con in spalla un sacco di iuta pieno zeppo di rane pronte per essere scuoiate vive, allora si usava così prima di mangiarle. Visto che ormai era sera inoltrata decisero di depositare i sacchi sotto la tettoia dicendo “Domani mattina ci svegliamo presto e prima di lavorare ci facciamo una scorpacciata di rane tutti quanti”. Al far dell’alba mia mamma mi sveglia di soprassalto, e come mi prende in braccio e mi sporge alla finestra ho questa immagine del cortile completamente verde: durante la notte tutte le rane erano scappate dai sacchi di iuta.

Ferruccio Cornelli, torrefattore. Un signore mi prende giù a Piacenza e mi dice “Tu mi interessi, se vuoi venire a Milano con me a lavorare”. Io lo presi al volo. Eravamo ragazzi giovani, tutti nell’Emilia-Romagna si cercava di crescere e Milano era la meta. I coloniali di una volta erano giganteschi, là imparai a tostare il caffè senza queste macchine moderne di oggi. Dormivo così, ci si arrangiava. Ho fatto un anno poi ho trovato la moglie, sempre del paese. A quel tempo si aprivano le torrefazioni che prima non esistevano, l’attività l’abbiamo fondata insieme nel ’58. Andavo in tutti i negozi con il mio indirizzo, il telefono non l’avevamo ma ci chiamavano dalla cabina in piazzale Loreto “Lei alle 15 è chiamato da Milano” eccetera. Via Padova allora era una via importante, commerciale, in più cominciavano ad arrivare i meridionali, la maggioranza pugliesi e calabresi anche perché c’erano affitti contenuti. Arrivavano in uno, in due poi arrivavano anche i parenti da laggiù. Ad ogni modo quando tornavano in paese si ricordavano molto dei loro parenti, non uscivano mai di qua se non portavano qualcosa, era proprio un modo di fare e di riconoscere, poi forse anche di farsi vedere che nella grande città han trovato la fortuna. Ed erano grandi consumatori di caffè, ma grandi grandi, di quantità. Tra l’altro noi tostavamo un po’ alla meridionale, con i caffè piuttosto avanzati di tostatura perché loro lo gradivano. Qua invece al nord no, al nord siamo più non per la tostatura svizzera che è proprio pessima, ma piuttosto sul chiaro che sullo scuro, tanto è vero che noi abbiamo due linee, il dolce e il forte.

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