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Umberto Fracchia. Una notte nella stazione di Silvi

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C’è una collana editoriale, Scintille, il cui nome è preambolo del suo contenuto e un editore, Divergenze, che dal 2021 sta curando una serie di volumi in cui l’estrema attenzione traspare già al tatto. Dalla rilegatura a filo di refe, alla scelta di un cartoncino Woodstock tender cream per la copertina e carta Arena ivory bulk extralusso per il testo, ogni dettaglio dei suoi volumi sembra voler instaurare un dialogo intimo con il lettore, un rapporto fiduciario dove la parte più caciarona/commerciale viene lasciata volutamente in secondo piano per dar risalto a quella “scintilla”, appunto, che dalla sola qualità del manufatto-libro deve trarre la sua forza principale.

Dopo un primo volume dedicato alla Trilogia delle maschere pirandelliane e due uscite più contemporanee, il quarto pargolo della Biblioteca delle novelle è dedicato a un autore, Umberto Fracchia, la cui voce soffusa da sempre dedita ai “secondi”, merita oggi un’indubbia riscoperta.

Si diceva quindi degli emarginati, le figure al confine, sagome innominate di ombre e stracci, spesso ignorati dai passi spediti di una borghesia troppo indaffarata e altezzosa per potersene accorgere, ecco appunto, loro, gli outsider letterari, sono forse gli unici veri esuli in grado di raccontare un’epoca: il novecento, che di vicoli oscuri e marciapiedi spogli si è fatta palcoscenico dei loro travagli.

Ma se a raccontarne la disperazione in molti ci sono riusciti, in pochi hanno saputo guardare oltre il velo esplicito della tragedia, che di povertà e miseria si fa presto a riempire i fazzoletti ma non solo di ombre sono fatte queste vite.

C’è una parte intermedia, tra la felicità e la mestizia, un limbo dai toni soffusi in cui i dettagli e le piccole cose si fanno chiavi di lettura ben più stratificate e complesse di ciò che appare in superficie. Il fascino della stasi, l’omologazione della provincia, il senso di anemoia scaturito da un riflesso tra i vetri di una stazione che ha un nome ma che “potrebbe non averne nessuno”, qui e soltanto qui, in questa dogana di anime viandanti pare volersi soffermare l’occhio attento di Umberto Fracchia. Treni da cui non scende nessuno, in transito su binari le cui destinazioni ci sono ignote, come ignoti sono i nomi dei loro passeggeri allo stesso modo dei protagonisti della prima novella, la più lunga del trittico (Una notte nella stazione di Silvi) tutta scandita da un’intima sospensione che si nutre dei silenzi di un capostazione e una donna che ha perso suo figlio. Già in questo primo testo si avverte una sensibilità classica ma che non teme l’uso di soluzioni narrative contemporanee. Tra lettere riesumate e visioni che trasudano determinazione preannunciando ribellioni future, Fracchia con questo primo racconto conferma il suo senso etico che negli anni troverà il giusto eco in altri scritti e altre azioni ma che già qui rifulge determinato, nelle cicatrici di un corpo, quello della signora Stiner, che non è più disposto a cedere al compromesso di un amore soffocante.

L’apatia del capostazione non è dunque la stessa di un Bartleby scrivano, qui l’attesa non è condanna, semmai solo una tregua, la stessa di cui paiono nutrirsi i sensi ormai guasti di Abramo Gericon, protagonista della seconda novella.

Ebreo, settantenne, ormai prossimo alla cecità, ha trascorso la sua vita frugando tra i rifiuti, «entrando nelle case della povera gente subito dopo il becchino», per poi trovare la propria epifania sopra una panca in pietra che sarà casa e in seguito cassa. Anche in questo secondo quadro dai contorni sbiaditi prevale il senso di una nostalgia profonda che riverbera nei dettagli: il rumore di un pallone sospinto in cielo dalle giovani gambe dei ragazzini che si ritrovano a giocare a pochi passi dall’uomo, la pioggia che batte sui vestiti logori e interrompe la partita, l’immobilità di un corpo esausto, quello del mite Abramo, il cui nome dal significato ebraico “Padre di molti”, forse non è scelto a caso: uomo povero calato in un’esistenza di giorni troppo lunghi, la cui miseria non è più condanna, bensì armistizio silente. E mentre un uomo si spegne al giungere del nuovo sole, il magnano fuligginoso attraversa le strade di un paese (che di Bargone – luogo di nascita dell’autore – potrebbe aver tratti in comune) con bisaccia e soffietto sulle spalle. In questo terzo e ultimo affresco par esser proprio la sua voce a voler scandire il ritmo. «Il magnano, ohi donne, rangemo, stagnemo, segge pignatte e bronzi!» Grida il suo portento mentre le finestre del borgo si popolano di occhi curiosi. Oggetti esausti che si ridestano utili mentre l’uomo da sfoggio a un’abilità che si fa spettacolo. E se al prodigioso artigiano bastano pochi tocchi per compiere il miracolo, così all’autore sono sufficienti altrettanti paragrafi per mostrarci un mondo il cui sipario sta già scendendo ma le cui luci non sono ancora spente. Ed è con quest’ultima ode all’insolito che l’eco di Verga si smorza alla luce del focolare, nell’intento di donare riscatto agli impotenti senza lasciarsi sconfiggere dalle ombre. Mostrando un modo altro di raccontare, in grado di portarci dentro quella stessa pace ovattata di cui l’autore si è inebriato negli ultimi anni della sua vita, mentre scriveva del mondo, affacciato alla finestra del suo piccolo borgo ligure.

Stefano Bonazzi

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Una notte nella stazione di Silvi

Umberto Fracchia

Divergenze

14,00 euro — 74 pagine

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