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Un cantautore vende un mondo. Intervista a Francesco Baccini I

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Buongiorno Francesco, ti premetto che sono tuo fan dagli anni 90 da quando sono uscite quelle fantastiche canzoni tipo Margherita Baldacci, non so se hai avuto modo di notare il bisonte insaponato che abbiamo fatto con l’intelligenza artificiale.

Sì, l’ho visto.

È fantastica quella metafora. Per raccontarti a quante più generazioni possibili Ti chiederei qual è stato il tuo rapporto con la musica e la canzone.

Sì, ma guarda, da bambino ascoltavo musica classica, ho ascoltato musica fin da quando mi ricordo che esisto e poi a 8 anni mi regalarono un organetto Bontempi come regalo di Natale. Passavo le giornate a suonare questo coso ad orecchio e mio zio disse a mio padre: -Perché non lo fate studiare questo ragazzo? – ma a casa mia nessuno aveva mai suonato pianoforte o uno strumento.

Ero in una famiglia di operai, nelle case popolari, ti dico soltanto che quando mio padre decide di farmi studiare pianoforte, ovviamente in privato, perché a 9 anni non vai in Conservatorio, mi comprò un pianoforte. Non so in quante rate l’ha pagato e il quartiere in massa era venuto a casa mia a vederlo perché nessuno aveva mai visto un pianoforte dal vivo.

E mi ricordo tutti i bambini in fila indiana che mi dicevano: -Posso schiacciare un tasto? -. Perché avere un pianoforte nel 69 a casa era una roba da miliardari, lo vedevi nei film il pianoforte.

Ho iniziato a suonare musica classica e ascoltare musica classica. Il primo concerto che vidi fu quello in cui ascoltai un giovanissimo Uto Ughi. Chiaramente sentivo anche la musica leggera, ma la vedevo come una cosa lontanissima da quello che facevo io, poi i miei amici mi facevano ascoltare altre cose. Ma io ero sempre sulla classica e mi ricordo che a 16 anni il mio sogno era un concerto clavicembalo e liuto. Pensa te come ero messo.

Fantastico.

A 16 anni non volevo diventare una rockstar, volevo fare un duetto clavicembalo liuto oppure mi piaceva la musica barocca e quindi uno dei primi che ho ascoltato era Branduardi.

Che ha abitato a Genova

Sì, ma era di Varese ed è un caso isolato, a sé stante e faceva questa musica che assomigliava molto alla musica barocca e anzi lo era perché alcuni pezzi derivavano da lì. Ed è stato uno dei primi che ho ascoltato insieme al primo De André. Perché anche il primo De André faceva cose del genere. I primi dischi di Fabrizio avevano dentro molta musica barocca. Poi mi piaceva ascoltar di tutto, sono onnivoro. Ho scoperto il blues, il rock ma soprattutto il rock l’ho scoperto non con i Rolling Stones o con i gruppi, l’ho scoperto sai come?

No, come?

Con i film Tommy the Duke, Quadrophenia, Jesus Christ superstar, Rocky horror Picture show, sono questi i film con i quali ho scoperto il rock. Infatti, il mio modo di cantare e stato molto influenzato da questi film. Perché trovavo che in quei film cantassero in un modo molto più espressivo che cantare e basta. Era un cantar recitando.

Si.

E il mio modo di cantare è un po’ quello, perché racconto una storia. Perché racconto delle cose, perché il solo cantare, il cantante purista mi ha sempre annoiato mortalmente, a parte qualche rarissimo caso di voci straordinarie tipo Aretha Franklin ma le conto su una mano.

Quindi per te è importante l’interpretazione e la recitazione.

Con la canzone, specialmente se canti in italiano e scrivi canzoni, racconti qualcosa. E un cantautore non vende una canzonetta, vende un mondo. Ed è un’altra cosa.

Esatto.

E come mi diceva Pinketts io avevo “il senso della frase”. Quando canto qualche cosa devo far capire.

Grandissimo Pinketts.

Con Andrea io ho fatto diverse cose siccome avevamo la stessa età dicevamo per scherzo anzi lui diceva che io ero la sua parte astemia. Io sono astemio lui no ma eravamo in sintonia su tutto. Abbiamo fatto uno spettacolo folle che si chiamava Orco Loco lo abbiamo portato in giro e abbiamo fatto 60 repliche. A Milano avevamo fatto 32 repliche al Ciak. Era una follia totale non si capiva se era un musical, un concerto o una commedia. Un casino. Però l’effetto era stato bello. La Pivano quando è venuta a vederlo a Milano ha detto: -Ho visto il primo spettacolo postmoderno-. Era una follia pura e poi Andrea lo conosci.

Aveva un bel modo anche di scrivere.

Esatto e poi insieme abbiamo fatto un film in cui abbiamo fatto gli attori. Si chiama Zoè, lo trovi anche su Amazon Prime, è una specie di favola sulla guerra dove io sono protagonista insieme a una bambina di 9 anni e devo accompagnare questa bambina a cercare il padre che è il capo dei partigiani durante il periodo dei rastrellamenti dei nazisti. E questo film ha fatto più di 40 Festival, a partire dal Giffoni siamo andati anche in India. A Nuova Delhi, a Bangalore.

È piaciuto?

Era un film fatto senza soldi ma era magico tanto è vero che Monicelli se n’è innamorato.

Chi è il regista?

Il regista si chiama Giuseppe Varlotta. È di Asti e il film l’abbiamo girato tutto nella campagna di Asti.

Tu come hai iniziato a cantare?

Sai come ho iniziato? Avevo già quasi vent’anni e un giorno c’era una trasmissione di quelle coi cantanti in tv. A me non veniva neanche per l’anticamera del cervello di cantare e mia madre mi guarda e mi dice: -Ma tu non vorrai mica fare il cantante? -. Io la guardo e gli dico -Che cazzo dici?-. Con mia madre avevo sempre un rapporto conflittuale. E il giorno dopo mi alzo e vado al piano e vado a vedere se so cantare anche se non avevo mai cantato in vita mia. E mia madre dalla cucina: -Ma cosa fai? Canti? -. Ed io: -Ma no, no-.

Ed io mi dico -Cazzo so cantare… che figata-. E lì quando scopro di saper cantare inizio a cantare qualsiasi cosa cose anche difficili. Di aver tre ottave di estensione vocale più il falsetto e facevo quello che mi pareva. Qualsiasi cosa.

E da lì per spirito di contraddizione ho iniziato a cantare poi andavo nei locali a Genova dove c’era il piano bar e dicevo: -Mi fai fare due pezzi?-. E poi quelli del locale volevano che andassi a lavorare lì. Ma io non ci pensavo neanche. Prima facevo pezzi di altri, poi mi sono stufato e ho iniziato a fare i pezzi miei. Scrivevo canzoni strane perché non mi rifacevo a nessuno. Non ero il nuovo questo o il nuovo quello. Non avevo questi punti di riferimento. Tant’è che quando mia mamma ha sentito la prima canzone voleva chiamare uno psicanalista. Era preoccupata. La canzone era Figlio unico finita nell’album Cartoons. Dove cambio tre tempi. Non era una canzone sicuramente ortodossa. E poi vedevo che queste canzoni le proponevo in giro e piacevano e il gioco è diventato sempre più serio.

Eh sì.

E mi son ritrovato a fare il cantautore, ride.

Sei stato anche a Milano, giusto?

Da Genova sono scappato e sono andato a vivere a Milano in macchina per un anno e mezzo. Io proprio sono scappato di casa. Sono uno scappato di casa.

E come mai sei scappato?

Perché a Genova aveva una situazione che oramai mi soffocava cioè, avevo il lavoro di mio padre, ero il capofamiglia perché mio padre era morto quando io avevo 15 anni.

A un certo punto io continuo ad andare in ufficio perché mi avevano messo negli uffici a fare l’impiegato ed ero diventato Fantozzi praticamente. Con il mio carattere siccome mi conosco mi son detto: -se rimango qui divento un serial killer e li uccido tutti, meglio andare, mi conviene andarmene- e allora ho preso e sono scappato. Mia madre, infatti per sei mesi non l’ho neanche chiamata, avrà pensato che mi fossi suicidato: – si sarà buttato dalla finestra…-. Per fortuna che ancora non c’era Chi l’ha visto e non c’era neanche il telefonino.

Era una fortuna eh?

E io allora ho preso la macchina e mi son detto: -Le case discografiche sono a Milano. Bene! Andiamo a Milano! – con l’elenco del telefono andavo tutte le mattine a rompere i coglioni come un martello pneumatico a Mara Maionchi a Caterina Caselli, facevo il giro delle sette chiese con anticamere di ore finché alla fine poi sono riuscito ad avere un contratto con Caterina Caselli.

E poi era bellissimo perché non avevo dove andare a dormire ma non avevo neanche i soldi per mangiare però non volevo neanche andar a lavorare nei locali e far piano bar. Per far quello tanto vale che fossi rimasto a far l’impiegato in porto.

Io sono andato a Milano per far la mia musica non per fare del piano bar. Allora ho raggiunto un accordo con un locale che si chiama Ronchi 78 in via San Maurilio, una traversa di via Torino che credo ci sia ancora adesso, dove andavo lì e facevo 30/40 minuti di pianobar, facevo quello che volevo io e in cambio non volevo soldi ma mi davano da mangiare, così almeno una volta al giorno mangiavo.

Poi, di notte, quando chiudeva il locale, prendevo la macchina e cominciavo a girare finché non prendevo la tangenziale e andavo a dormire in un Autogrill. Nel parcheggio di un Autogrill. Perché vivere in macchina non è il massimo della vita. Soprattutto a Milano d’inverno.

Immagino.

Oppure avevo delle fidanzate. E allora prima mi premuravo di sapere se vivevano da sole con casa così almeno avrei dormito da qualche parte.

È quella che si chiama la gavetta.

Cazzo, è super gavetta!

Mi ricordo che ero talmente senza una lira che andavo fuori dalle pizzerie a guardare quelli che mangiavano la pizza. Mi riempivo guardando gli altri che mangiavano.

Spettacolo.

Alla fine, è stata un’esperienza di vita che vale 100 miliardi perché poi dopo ti sembra tutto una scemenza.

E poi hai la consapevolezza di aver guadagnato tutto da solo.

È la cosa di cui vado più fiero. Non ho mai avuto santi in paradiso né da nessuna parte. Quindi posso dire che il famoso sogno americano io l’ho fatto qua. E non è facile, è veramente difficilissimo. E in più l’ho fatto facendo quello che voglio io. Perché ovviamente i discografici tentavano sempre di cambiarmi ma io ho sempre resistito, ho sempre cercato di fare di testa mia.

Ho visto anche l’intervista con il quartetto d’archi con cui hai iniziato a lavorare in cui dicevi che all’arrangiatore “non avevi rotto per niente le balle” mentre lasciavi intendere tutto il contrario.

Che dire, ho fatto una roba che in Italia difficilmente riesca, credo che sia quasi impossibile.

Credo anche io.

All’epoca c’era ancora qualche spiraglio e io mi ci sono infilato.

Questo è importante. E allora ti chiedo quali sono i ricordi più belli che ti ha dato la tua esperienza?

Sono talmente tanti che potrei farci due film di sei ore l’uno perché nella vita ho incontrato tanta di quella gente così disparata. Ero in un localino a Milano che si chiamava Magia dove poi sono nati anche Elio e le storie tese che era una specie di pub dove facevano questi miniconcerti oppure presentazioni di dischi di artisti sconosciuti. Io ero già emozionato perché presentavo il mio disco ai giornalisti ed eravamo un trio io, Andrea Braido e un batterista. Era il mio primo disco ed ero agitatissimo. In fondo alla sala mi sembra di vedere uno che assomiglia a Fabrizio De André e mi dico: -Pensa te… c’ho i miraggi … figurati se De André mi viene a sentire…- e infatti non pensavo fosse lui ma così nella penombra gli assomigliava. E mentre facevo il concerto ed ero concentrato ogni tanto buttavo l’occhio lì e dicevo: – Ma quella lì bionda vicino a Fabrizio sembra Dori Ghezzi…-

Alla fine di questo miniconcerto arrivano quelli della CGD e mi dicono: – c’è Fabrizio De André che ti vuole conoscere-. Si presenta Fabrizio e mi dice: -Ti volevo conoscere- e io gli dico: – No, scusa io ti volevo conoscere! – e mi dice: -Cosa fai domani sera? Vieni a cena da me? -. E io gli rispondo: -Certo! -. Anche perché Fabrizio era uno di quelli che ascoltavo da ragazzino, infatti i miei cugini più grandi me lo avevano fatto scoprire. Quindi mi ritrovo a casa di Fabrizio e nasce questa amicizia che è durata poi fino alla fine.

Ma con Fabrizio c’era un rapporto strano, come se noi ci conoscessimo da sempre. E poi devo dire che io in quegli anni ero veramente uguale a Luigi Tenco tant’è che a Genova mi chiamavano Luigi. Avevo una somiglianza che a volte mi scambiavo io nelle foto di Tenco e Fabrizio mi diceva -Belin sei uguale a lui, tu sei Luigi! -.

Questi anni di frequentazioni De André mi ha raccontato un sacco di cose di Luigi Tenco tant’è che alla fine io ci ho fatto pure un film che uscirà a settembre Su Amazon prime. Un gioco di specchi tra me e Tenco perché ci sono un sacco di analogie anche dal punto di vista delle canzoni. Tenco ha scritto anche canzoni ironiche che pochi conoscono ma aveva anche la sua parte intimista come me che ho anche quella ironico satirica.

Sì, si vede che c’è una gran fusione tra la parte ironica e quella profonda soprattutto in Nomi e cognomi nel 1992.

Ma poi Tenco era uno che andava contro il mainstream dicono che era un rompipalle era uno che voleva cambiare il mondo era uno pericolosissimo. E Fabrizio quando sentiva parlare di Tenco lui si incazzava come una iena perché diceva: -Non è Luigi quello lì-.

Luigi non era assolutamente un depresso, Luigi era uno che voleva cambiare il mondo e l’atteggiamento un po’ esistenzialista era una moda dell’epoca e ci marciava lo stesso Luigi.

Lui lo sapeva che se a una festa si metteva lì in un angolo e guardava da una parte incazzato aveva la fila di ragazzine, perché lui era il bello del gruppo.

Lui frequentava molto Genova e se non sbaglio è lì che si sono conosciuti con De André.

Sì, De André era un po’ più giovane, erano un gruppo di ragazzi appassionati di musica. Tenco partiva dal jazz e poi suonava il sax, Tenco e Lauzi erano compagni di banco poi hanno fatto una specie di gruppo ma non pensavano mica di diventare quello che sono diventati.

Dovrebbe esserci un aneddoto in cui De André diceva in giro di aver scritto una canzone di Tenco ma non era vero allora Tenco lo incontra e gli chiede: -Ma perché dici che l’hai scritta tu?- e lui gli risponde: -Per prendere della mussa-.

Certo è vera. È tutto vero. Erano un gruppo di ragazzi Lauzi, Tenco, Bindi, Paoli, poi c’erano i fratelli Reverberi. E uno dei Reverberi fu appunto direttore d’orchestra alla Ricordi e allora lui, siccome a Milano da solo si annoiava, con la scusa li ha fatti andare tutti su a Milano e gli faceva incidere dei pezzi.

Tenco ha inciso delle canzoni con dei nomi di fantasia, inventati.

Davvero?

Eh sì, perché lui si vergognava a cantare col suo nome. Dopo anni ha iniziato ad incidere come Luigi Tenco ma prima ha inciso con dei nomi assurdi: Gordon Cliff, Dick Ventuno, Gigi Mai.

Poi c’è stato il momento della rottura con Nomi e cognomi.

Eh sì, ma bisogna dire che già Cartoons era un disco di critica ironica agli anni 80, con quell’ironia tipo Armani cambiami il look.

Era un disco ironico ma l’ironia spesso non viene capita, soprattutto in Italia e così mi mettevano tra i demenziali a me che di demenziale non ho niente.

Perché ogni cosa che dico ha un perché, non son demenziale.

Si vede che la parte di Tenco era forte

In realtà il mio punto di riferimento lì era Jannacci che faceva canzoni tragicomiche del tipo “rido per non piangere”. Il più poeta di tutti secondo me era Enzo Jannacci. Jannacci riusciva a farti sorridere anche parlando di un dramma.

Era un sorriso amaro, cioè nelle sue canzoni c’è sempre una profondità anche in quelle che sembrano più facili Vengo anch’io no tu no, per esempio Giovanni telegrafista è una delle canzoni più tristi che ci siano.

Perché Jannacci faceva i versi, aveva questo modo di cantare un po’ strano e la gente lo vedeva come un guitto e un saltimbanco. E ricordo che quando ero piccolo c’era Canzonissima e quando partecipavano Jannacci o Gaber arrivavano ultimi con Zero voti.

La gente non li capiva e diceva: -Questi qui son matti-.

Se uno te lo chiede a freddo per te che cos’è la musica?

Sono quelle domande che io non mi sono mai posto perché sono dentro la musica. Sarebbe come chiedermi di parlare del mio sangue, io potrei solo risponderti che ce l’ho qua dentro che circola, non è che controllo sempre e nel momento che non girerà più non me ne accorgerò perché sarò morto. Fa talmente parte di me che come se dovessi parlare del mio avambraccio.

Sei troppo coinvolto o in conflitto di interessi allora.

Sì, funziona. È da quando sono nato che la musica fa parte della mia vita. Mi ricordo che mia madre mi raccontava sempre che quando avevo due anni ero l’attrazione della spiaggia perché mi attaccavo al Juke box e stavo lì veramente delle mezz’ore a tenere il tempo con il piede e a muovere la testa con tutti che mi guardavano. Nella musica ci nasci, è il famoso dono di natura.

Infatti, come tutti quelli che sono provvisti di un talento naturale, io sono pigrissimo, vado al minimo.

Nel senso che mi sforzo il meno possibile perché sono pigro.

Sono stato anni senza case discografiche, senza manager ma neanche me le andavo a cercare io mi diverto a fare i concerti, ho sempre fatto la media di 50 concerti all’anno da quando ho cominciato anche perché poi il concerto è come il ristorante, se mangi bene ci torni.

È divertente.

Deve esserlo un divertimento, se diventasse un lavoro mi licenzierei subito da solo.

Io nel 98 me ne sono andato dalla CGD WARNER perché premevano che io facessi un disco all’anno e me ne sono andato via due album prima di quanto era previsto dal contratto.

E abbiamo fatto un accordo. Siccome nessuno voleva andare a Sanremo quell’anno lì io ho detto: – Ok ci vado però mi levate due dischi dal contratto-.

Ahahaha! Grandissimo.

E andrai a Sanremo con questa motivazione perché non me ne fregava niente di andare a Sanremo, veramente nulla perché nella mia vita Sanremo non ha mai rappresentato niente né da pubblico né da cantante.

Io il successo non l’ho raggiunto con Sanremo.

È importante che questa la leggano quelli che non hanno capito e magari a Sanremo ci vogliono andare.

Ma infatti mi sarei messo una maschera per andare a Sanremo perché mi sembrava una cosa che non c’entrava niente con il mio mondo.

Quando ho deciso di fare il cantautore il massimo che avrei voluto fare era vincere la targa Tenco che infatti ho vinto due volte. Per me Sanremo era quello, era il premio Tenco non il festival.

Al Festival c’era altra musica che non mi è mai interessata minimamente. Se non per qualche artista che è finito lì per sbaglio. Mai visto una edizione di Sanremo. Che non mi interessa è come se ti chiedono: – Ti piace il basket? – e tu dici: -No!- e poi ti chiedono : – Perché non guardi i campionati di basket?-, -Perché non mi piace il basket-, -Ma è bello!-, -Ma guardalo te se è bello!-.

Non è una gara la musica, da noi invece è sempre più diventata solo una gara.

Ma la musica non è una gara perché se fosse una gara farebbero anche le Olimpiadi.

Ormai i ragazzi sono abituati che la musica è una gara, c’è X Factor e poi c’è Sanremo e poi Amici, tutta una gara.

Bella questa.

Ma gara di cosa? Cosa c’entro io con uno a caso di quelli che ci sono adesso. Facciamo due sport diversi. Come fai a far gareggiare uno che fa lancio del giavellotto con uno che fa corsa? Vince quello col giavellotto se infilza l’altro mentre corre.

Pensavo la stessa cosa è un bel concetto.

Anche perché una volta la musica non usciva da una gara e Sanremo non lo considerava nessuno. Nella mia adolescenza chi è che guardava il Festival di Sanremo? Dal 1975 all’ottanta erano dei Sanremo inguardabili tipo che si diceva: -Ah ma lo fanno ancora? Incredibile-. E poi quelli della mia generazione ascoltavano i Genesis, i Pink Floyd, i cantautori, oppure c’era la musica impegnata anche fin troppo.

Al posto di quella impegnativa.

Si esatto, negli anni 80 in invece il Festival è tornato. Edoardo Bennato una volta mi fece come un grafico e mi disse che quando scende il livello culturale si alza l’audience di Sanremo. Si alza il livello culturale e scende l’audience di Sanremo.

Questo è ottimo per dare un’idea del livello di intrattenimento. E la cosa non sta migliorando.

Ma scherzi? Ora siamo quasi come negli anni 50 anche a livello di benpensantismo.

Secondo me è anche peggio.

È peggio perché allora erano ignoranti e basta.

E se avessero aperto un libro ci avrebbero trovato probabilmente delle cose sensate.

Non solo ma a quei tempi chi era ignorante si vergognava di essere ignorante oggi invece no è il contrario. Devi vergognarti di non esserlo. Oggi ti dicono: -Che palle-. Ma il mio cervello è il mio gioco preferito ci ho fatto pure una canzone. Io sono un lucidologo, sono demodè, e sono completamente fuori dal tempo.

Ho fatto una canna nel 78 e mi è rimasto l’effetto fino al 90. Io faccio fatica a rimanere lucido e quando vedo uno che si fa lo picchierei dicendo: -Ma io faccio fatica ad essere lucido e tu ti fai? –

Della serie: – Tu addirittura paghi mentre io son così tutto il giorno? –

Sono astemio totale, nemmeno Pinketts ci è riuscito nemmeno De André. Lui si beveva una bottiglia di whisky e io bevevo un caffè. Nessuno è riuscito a farmi bere perché io in certe cose sono incorruttibile. Perché da buon ipocondriaco io devo essere lucido.

Non si sa mai.

Infatti, se io leggo che uno ha il mal di pancia sento il mal di pancia anch’io. Infatti, a me i medici non mi cagano più. Il giorno che starò male sul serio mi lasceranno lì dicendo: -Tanto non ha un cazzo…-.

Io le malattie me le invento, mia sorella è primario e gli ho fatto fare tante di quelle figure. Mi prendeva le visite con primari che poi dicevano che non avevo mai niente. Io sentivo dei sintomi che non esistono in natura, eppure io me li sentivo.

L’ipocondria è una cosa precisa, esiste. Ma chi non la conosce non lo sa.

Sicuramente ci si sta anche male.

Porca miseria! Te le senti tutte.

-CONTINUA-

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