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Wild boys

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Una mia amica mi scrive su WhatsApp: «In pausa lavoro: mangiato pizza con glutine dopo un lungo periodo gluten free e ho scoperto che provoca flatulenza grave. Meno male che sono SOLA e all’aperto. Ho acceso sigaretta per camuffare sfiato e per fortuna non ho preso fuoco!».

Le rispondo che mi sembra un buon inizio di “liberazione” e che, come si dice, un vizio tira l’altro: si parte con i carboidrati per arrivare al fumo e in mezzo ci si emancipa con un’aria.

Mi soffermo a pensare per un attimo sul perché mi abbia mandato questo messaggio: forse ha sbagliato destinatario, o forse ha letto Il Vangelo secondo Gay, il mio romanzo, definito “volgare” (da un sedicente critico di qualcosa) solo perché i personaggi femminili scoreggiavano «con incomprensibile normalità».

Mi è capitato spesso in Milonga, ballando tango, di inciampare in un alito di cesso che qualche coppia aveva lasciato in scia passando prima. La cosa crea un certo imbarazzo nella sala da ballo, perché tutti si è sospettati di essersi cagati addosso, nonostante la passione e il coinvolgimento dell’abbraccio (una aggravante).

Quando avevo sedici anni, uscivo con Debora con la Acca, e lei aveva una amica quasi identica, una comune Laura che, a sua volta, frequentava Simone senza E.

Ci si ritrovò tutti e quattro nell’auto di Simone senza E, un diciottenne con una Due Cavalli Citroen bordeaux e nera. Era sera, suonava una cassetta dei Duran Duran e i vetri erano appannati dai respiri anteriori e da quelli dei sedili posteriori, sui quali con Debora con la Acca si cercava spazio e intimità dentro i jeans aderenti.

Poi accadde il fatto.

Simone senza E fu il primo a ridere o a “cantare” come una gallina che ha appena fatto l’uovo… Io non ho mai assistito al “parto” di un uccello gruiforme otidide, ma come molti ho sempre dato per scontato che la gallina provasse una certa gioia a liberarsi dell’uovo… Mi fido dei proverbi e mi fido del mio istinto, anche se in quel caso era più fiuto che altro.

«Ma sei una cloaca!» dissi a Simone con la E per puntualizzare la mia estraneità ai fatti.

«Ebbene sì. Sono un selvaggio» rispose.

Non sapevo che il termine “cloaca”, prestato all’uso, indicasse proprio la vagina della gallina, ma anche il pene del gallo (che poi ne ha due).

«…fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza…». Così si lamentava San Pietro (credo) di Bonifacio VIII (forse) nella Divina Commedia: «Sto Bonifacio ha trasformato la mia tomba in Vaticano in una fogna!».

Nessuno spazio chiuso è sufficientemente grande per “nascondere” una scoreggia!

Tanto vale non nasconderla!” è quello che immagino pensasse un attore teatrale, che mi ospitò a casa sua per una lezione (molto utile) di lettura.

Ci presentò sua moglie, una donna discreta e immodesta (o modesta ma illusa), e lui mi accolse con una scoreggia rumorosa molto palese, seguita anche da una scossa del corpo e da una presa della mano sui pantaloni, verso i glutei, come per estrarla dal tessuto.

«Lui è Orazio!» mi introdusse la moglie, «un Naso famoso che crea profumi di nicchia!»

«Orazio come il poeta!» si accorse di me l’attore.

«L’unica altra alternativa che io ricordi è il cavallo di Topolino!» dissi consapevolmente…

«Dunque la scelta è tra un fumetto, il cavallo di un topo gigante che tutti chiamano col diminutivo, o un poeta!» sancì sommamente l’attore guardando un punto sul soffitto.

«Potrà mai un topo su un cavallo placare la sua voglia di fuga? Sentirsi più vicino al cielo e perdersi nelle profondità: stella tra le stelle? Potrà mai la fisicità esteriore di un cavallo superare in bellezza l’animo nudo del poeta?» domandò il sempre più sommo divo con un fare retorico.

«Mentre ci pensi lasciami mangiare una mela, e fammi liberare la pancia da quest’aria che mi opprime. Non prendertela a male se faccio rumore: in fondo sono scoregge d’artista. Suoni della natura selvaggia, simboliche più del nitrito di un cavallo o del pianto silente di un poeta!»

Pensai “Ma che cazzo!”, prima che mi offrisse la sua mela morsicata… E tutta quella imperfezione mi sembrò così rara da lasciarla andare.

Anche lui si lasciò andare: più volte, su varie frequenze sonore. Ma mi insegnò a leggere, davvero!

A volte bisogna che ci manchi l’aria per farci ricordare quanto fiato abbiamo in corpo: e tutto quel che si può fare, in fondo, è solo vivere e respirare.

«Oh tu, selvaggio vento dell’Ovest, respiro dell’essenza dell’autunno, tu, dalla cui invisibile presenza le foglie morte sono trascinate, come spettri in fuga da un incantatore…» leggeva il mio amico attore.

Angelo Orazio Pregoni

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