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Andrea Quattrocchi. Il pescecane

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Anche Il pescecane, l’esordio nel romanzo di Andrea Quattrocchi, si può definire un monologo.

Intendo al pari di Notte, giorno, notte, ultima prova narrativa di Beatrice Monroy di cui ho scritto tempo fa.

Ma se Monroy incastona le vicende narrate in un ambiente che rimanda al teatro, al palcoscenico, e lascia libere altre voci di sostituirsi a quella principale, Il pescecane prende a suo riferimento quello che potremmo definire “flusso di coscienza”.

Qui c’è una sola voce narrante (o “recitante”), che non trova né vuole sponda in altre (qualcosa appare, ma è ridotta a goccia), che prova a darsi “in purezza” con tutto un caotico carico di tic linguistici (e verbali), la sua confusione ‑ o, meglio, fumosità – nel tenere i piani della storia perfettamente consequenziali e razionali.

Ed è forse logico, perché se mr. Bloom monologava nelle stanze del suo cervello, il Debellis, protagonista principale della vicenda, sproloquia davanti a uno schermo di computer.

In realtà si confessa, così dice, usando lo strumento della comunicazione odierna per eccellenza, quello che detta la nostra contemporaneità: i Social.

Usa precisamente Facebook, il più anziano e il più “classico” fra i Social, quello storico ma ancora parecchio resistente.

Detto con altre parole, il protagonista de Il pescecane proietta il lettore in quella che dovrebbe essere un live streaming, una “diretta” a cui partecipa chiunque sia amico o venga invitato.

Possiamo definirlo, per come lo usa il Debellis, come un momento in cui lo stato di coscienza è comunque vigile, per quanto alterato: dice a ruota libera, farnetica, eppure come minimo quanto racconta puzza di reticenza.

Debellis è un siciliano trapiantato in Lombardia, direttamente da Pietrarossa (località fittizia, come da buona tradizione letteraria) a Milano, pare con biglietto di sola andata da svariati anni. Lavora nel settore bancario, ha una moglie di nome Silvia, è un membro in vista della parrocchia.

Un uomo comune, dall’esistenza comune. Un uomo irrealizzato, a leggere neanche tanto fra le righe e neanche tanto approfonditamente. Con una carriera lavorativa frustrante, prigioniero di se stesso e della sua mediocrità, capace (sembra) solo di astio verso il cugino Nico, soprannominato “pescecane”.

Il Debellis per vari anni (decenni?) ha tenuto dentro di sé un segreto, una macchia sull’anima, che ora, forse causa la scomparsa del padre Antonio (metafora possibile di una censura morale senza volontà di esserlo), decide di buttar fuori esternando.

Scomparsa non letterale, quella paterna, ma dovuta a un aggravarsi della demenza senile, capace di farlo uscire da casa per perdersi chissà dove.

Da tenere a mente il verbo “perdere” perché è quello su cui si fonda in buona sostanza tutto il romanzo: perdita del genitore, perdita dei freni inibitori, perdita di coerenza… Ma bisogna guardare anche con attenzione alla figura incarnata dal personaggio narrante.

Nel gioco del monologo, la sorta di parlato che Debellis usa propone al lettore vari momenti di contraddizione, di nebulosità, che mettono in discussione la veridicità dei racconti esternati.

Se la scomparsa del padre può essere l’elemento che scatena la logorroica confessione di Debellis, quest’ultima mostra profondi buchi, tanto da far venire il sospetto che il personaggio monologante sia in fondo un mitomane. Debellis potrebbe essere scoppiato per una ragione non detta, mentre padre e segreto sono solo frutto della sua fantasia distorta. È cioè lui a essersi perso.

Debellis è realmente “un personaggio ossessivo” come scrivono nella nota di segnalazione i giurati del premio “Italo Calvino” 2021? Certamente. Ma è anche un personaggio “inaffidabile e delirante”. Almeno per quanto e come racconta nella diretta Facebook.

Una diretta che nel tempo del romanzo dura quattro ore. In realtà il racconto di Debellis occupa circa trent’anni, e va dalla sua correità nei “fatti di Pietrarossa” fino alla scomparsa del genitore.

Ancora e più correttamente: torna indietro a quanto accaduto a Pietrarossa prima del suo trasferimento, per studio, a Milano, e si sposta in avanti, al suo vissuto contemporaneo e poi torna indietro e poi…

In breve, è come se il tempo non esistesse realmente, ma fosse un manufatto creato dalla sua mente, utile per poter porre ordine e da qui dare senso a quanto ha vissuto o sta vivendo, se veramente lo ha vissuto/lo sta vivendo.

Debellis dilata logorroicamente quel poco che ha da dire; gli dà la forma di una tragedia, ma dai toni grotteschi, in modo da crearsi una realtà. Una realtà che sempre più ci si inoltra nella storia, più appare fittizia, finzionale, falsa quanto si vuole, ma necessaria per esistere, per avere un narcisistico momento warholiano di visibilità.

Il personaggio autodetermina la propria realtà, il proprio esistere in questo universo per il tempo del racconto on line e, a posteriori, per quello che (non) è stata la sua vita fino al momento in cui parte il live streaming.

Fa di tutto pur di non prendersi la responsabilità di essere un uomo fra la folla, uno come tanti, che non ha combinato nulla di memorabile nella vita se non sognare l’atto eclatante, il parteciparvi, persino il fallirlo.

«Noi le crepe non le vediamo se ci siamo abituati, le discontinuità non le apprezziamo» dice Debellis, quasi a darsi una motivazione o una scusante di quanto sta facendo, della illuminazione che forse lo ha portato a quel monologo sul Social.

Alla fine, chiusa l’ultima pagina di questo parlare ossessivo, resta un dubbio: il protagonista ci è o ci fa?

L’autore giustamente tace, non si cura della congruenza complessiva di quanto contenuto nel romanzo.

Come nelle migliori narrazioni, lascia che sia il lettore a decidere.

 

Sergio Rotino

Recensione al libro Il pescecane, di Andrea Quattrocchi, Agenzia Alcatraz – A.SE.FI. Editoriale 2023, pagg. 139, € 16.00

 

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