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Anteprima. Léo Malet. Primo piano sul cadavere

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È un Nestor Burma agli “esordi” quello ritratto in Primo piano sul cadavere, romanzo di Léo Malet rimasto fino a oggi inedito in Italia, in uscita da Fazi nella collana “Darkside” (traduzione di Federica Angelini).

Assistiamo alle sue mosse a partire da uno studio cinematografico, dove un truccatore russo è intento trasformare il volto dell’investigatore privato tanto da renderlo irriconoscibile. Scoprendo che l’espediente sì è reso necessario per condurre le sue indagini sulle minacce di morte subite da un cliente, un noto attore. Tuttavia l’attore viene ucciso, e Burma dovrà scoprire l’assassino.

Si incomincia da qui ad assaporare la scrittura asciutta e velocemente espressiva dell’ “anarchico conservatore” Malet uno dei padri del Noir – che si insinua nelle pieghe dei mondi che via via esplora e porta alla luce, come utilizzando un faretto cinematografico. Personaggi e ambienti escono dal cono d’ombra prendendo “corpo” in un’immediata rivelazione. Questa volta, in particolare, è il mondo del cinema, i luoghi che ruotano intorno alla sua produzione, a finire sotto i riflettori, restituito in una versione inedita, quella del pericolo che può nascondersi ovunque. Rispetto ad altri romanzi della serie, in questo Primo piano sul cadavere Parigi rimane sfocata, in secondo piano: il set cinematografico, invece, diventa la scena principale, destinato com’è a ospitare la sempre più serrata caccia all’assassino. Inevitabile, come sempre, cercare di sfuggire alla suggestione grafica delle illustrazioni di Jacques Tardi: sarà mai possibile immaginare Nestor Burma senza tenere conto del tratto e della cifra stilistica dal noto fumettista?

Paolo Melissi

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Di seguito un estratto in esclusiva da Primo piano sul cadavere di Léo Malet, dal 28 maggio nelle librerie. 

Capitolo 3

Aggiunta ai titoli di coda

Guardai l’orologio.

Ripercorrere il passato prossimo aveva richiesto soltanto qualche minuto. Nel frattempo, mi si era spenta la pipa.

La riaccesi, guardai ancora un attimo il cadavere poi, lasciandolo in quella ridicola postura, uscii.

Mi imbattei in Marie che spuntava dalle scale.

La fermai:

«Le faccio una pessima impressione, eh?», dissi. «Non lo neghi! Si vede benissimo. Be’, venga con me che le faccio vedere qualcosa di ancora peggio…».

Entrai nel camerino.

«Non provi a rimetterlo in piedi», mi raccomandai. «È roba per i poliziotti. È più morto delle illusioni che si faceva Raymonde Marchand…».

Che invenzione utile gli stipiti delle porte. Perché senza quello dietro di lei, la Gioconda darwiniana sarebbe stramazzata a terra. Ci si appoggiò dopo aver lanciato un grido, poi un altro, e tra i due, a mo’ di sandwich, aver invocato il nome del Signore. La sua faccia incartapecorita si era ancora più ingrigita e raggrinzita.

«Avvisi chi di dovere», suggerii. «Sono talmente in tanti a comandare in uno studio che è difficile individuare il vero capo delle truppe. Lei saprà orientarsi meglio di me. Informi il comandante supremo, mentre io avviso la polizia».

La lasciai riprendersi senza sapere se avesse capito le mie parole e andai alla ricerca di una cabina telefonica. Mi persi in un dedalo di corridoi bui e ci misi un bel po’ di tempo a scovare ciò che cercavo. Il tutto per leggere, su un cartello fissato sopra i quattro apparecchi che occupavano l’estremità di un budello senza uscita miseramente illuminato, che ci si poteva procurare i gettoni alla buvette. Tornai dalla mia amica, la barista ieratica, senza ormai più speranze di riuscire ad avvisare il commissariato di quartiere, ma alla fine ce la feci. Non fui prodigo di spiegazioni. Dissi solo che Julien Favereau era morto e che la cosa poteva interessare la polizia, perché c’erano grosse possibilità che lo avessero ammazzato.

Mentre riattaccavo, dalla porta in fondo emerse un energumeno e si lanciò sul telefono con una tale frenesia che pensai di trovarmi in presenza di un mangiatore di ferro a lungo privato del suo metallo preferito. Azionò il quadrante saltellando da un piede all’altro. Gli abiti e il viso ocra, incorniciato da basette posticce, rivelavano la professione. Sicuramente doveva comparire in Fiore dei bassifondi nella scena della balera.

Ottenne la comunicazione nell’istante in cui io uscivo e stavo per allontanarmi, ma quello che disse mi fece cambiare idea.

«Pronto, Albert?», esclamò in tono di giubilo. «Sì, ci siamo. Ci siamo sul serio, ti dico… Una storia sensazionale… Quel vecchio balordo è morto… Ma no, non scherzo!… Rido, questo sì… Non credi sia una meraviglia?… Certo che ti terrò al corrente…».

Tornai sui miei passi. Il tizio stava riattaccando. Un po’ più calmo, mise una sigaretta nel bocchino e l’accese. La fiamma dell’accendino illuminò due occhi un po’ acquosi, forse proprio perché il possessore non beveva affatto acqua, ma intelligenti, svegli e straordinariamente simpatici. Mi avvicinai al tizio.

«Il vecchio balordo in questione è Favereau?», chiesi. «Si è già sparsa la notizia».

«Per la miseria! Non mi dica che lei è in pena. Sarebbe davvero un fenomeno… Questo sì che sarebbe un articolo originale!».

«Articolo? Lei è giornalista?».

«Al “Crépuscule”. Un giornale che vedrà moltiplicarsi le vendite se il caporedattore non mi caccia fuori prima che io abbia potuto dimostrare quanto valgo…».

Scoppiai a ridere.

«Posso fornirle gli elementi per un altro articolo. Scopriremo ben presto che non esiste una sola vera comparsa in giro. Perché anch’io sto recitando la parte… E la mia è una recitazione al quadrato!… Sono detective privato».

«Be’!», esclamò. «Ma allora… siamo colleghi!».

«Colleghi?… La mia professione dovrebbe vietarmi di mostrare il minimo stupore ma, nonostante le basette, la sua faccia mi piace, allora…».

«È reciproco», disse. «Con la differenza che per me è vero proprio grazie al suo trucco. Mi piace. Spero che al naturale lei non abbia la faccia di Tino Rossi».

«Detto in confidenza, sono molto meno brutto, ma non canto e tra le mia braccia non è mai apparsa una chitarra…».

«Allora, perfetto!».

«E adesso mi dica chi è davvero. Giornalista, detective o cosa?», insistetti.

«Be’! Ehm…» (esitò). «E se, per cominciare, ci presentassimo?».

«Nestor Burma».

«Marc Covet».

Ci stringemmo la mano.

«Il mio nome non sembra mandarla in fibrillazione, eh?», rise un po’ amaramente.

«Se può consolarla, nemmeno il mio ha prodotto su di lei un effetto travolgente».

«Già… Burma… Covet… Covet… Burma… un po’ come Dupont-Durand, no? Forse, anzi, sono più noti. Per usare la terminologia del posto, crede che raggiungeremo mai la ribalta, ognuno nel proprio campo?».

«Ci proveremo…» (con il tempo ce l’avremmo fatta. Ma eravamo gente tipo grandi capitani: ci volle una bella collezione di cadaveri per raggiungere la celebrità). «Nell’attesa…».

«Ah! sì…», sorrise, «vorrebbe sapere in che senso mi definisco detective?».

Esitò di nuovo. Non lo imitai. Intuii che quel reporter sapeva cose che ignoravo, che la sua fiducia mi sarebbe stata utile e che potevo comprarmela senza una grossa spesa.

«Sa di cosa è morto Favereau?», chiesi.

«È stata la costumista a dare l’allarme. Era piuttosto scossa. Ha detto che è morto all’improvviso. Non sono stato a sentire altro. Forse un attacco di cuore?… Sarebbe finalmente il suo turno», ironizzò.

«Indovini a chi avevo appena telefonato quando è arrivato lei. Alla polizia».

«Normale, no?».

«Se vogliamo. Qual è il numero del “Crépu”?».

«Gutenberg 80-60. Perché?».

Composi il numero senza rispondere.

«Ehilà! Niente scherzi. Cosa…».

Lo scansai con uno spintone e subito dopo gli misi la cornetta tra le mani. C’era qualcuno dall’altra parte del filo:

«Forza, si conquisti in fretta i suoi galloni da reporter», dissi. «Chiami l’Albert di prima e gli dica di non aspettare il suo articolo per titolare così: “Julien Favereau è stato assassinato, probabilmente con il veleno”».

Glielo dissi con una tale forza persuasiva che non mise in dubbio le mie parole nemmeno per un istante. Per mostrare quanto apprezzasse la dritta, imprecò così orribilmente al telefono che l’altro, nel suo ufficio del «Crépu», pregò per lui. Marc Covet lo calmò passandogli l’informazione.

«E adesso», proposi quando riattaccò, «andiamo a parlare della cosa bevendo qualcos’altro. Ho l’impressione che su questo ce la intenderemo sempre piuttosto bene».

© 2020 Fazi

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